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mercoledì 13 marzo 2013

AGRIGENTO e i suoi tesori


Nata con il nome Akragas, Agrigento fu fondata nel VI secolo a.C. dalla popolazione dei Rodii (provenienti dall'isola greca di Rodi) che si erano stanziati nella vicina città di Gela. Il nome della città deriva dal fiume che ne determina i confini geografici. La località fu prescelta grazie alla presenza di campi fertili, alla prossimità della collina dell'Acropoli e della Rupe Atenea. L'area tuttavia mostrae testimonianze di più antiche popolazioni; prova ne è il ritrovamento di un teschio femminile appartenente alla famosa  "Ragazza di Mandrascava", ritrovata vicino alla località Cannatello e risalente a mezzo millione di anni fa. Inoltre, sono stati ritrovati resti di un villaggio Mesolitico nella zona di Porta Bianca datati anno 6000 a.C.
Il filosofo Empedocle (circa 492 - 432 a.C. ca), a cui è dedicato Porto Empedocle tra l'altro, fu l'arteficie della democrazia moderata in città, che dueò a lungo.
Nel 406 Agrigento subì una pesante sconfitta da parte dei Cartaginesi, che la distrussero quasi completamente. Venne ricostruita nella seconda metà del IV sec. a.C dai Corinzi,  impegnati nella lotta contro i Cartaginesi in Sicilia.
Nel 210 a.C. Akragas subì l'assedio dei Romani che la conquistarono e ne modificarono il nome in Agrigentum. Con i Romani la città conobbe fasi economiche e sociali alterne che videro progressi per la città determinati dall'importanza del centro come emporio marittimo ma anche fasi di declino.
La succesiva dominazione fu quella Araba che iniziò nell'828 e che portò una nuova e positiva ventata di crescita demografica e sociale. Questi ultimi costruirono un nuovo nucleo urbano più in alto (dove oggi sorge il centro della città moderna) e fecero della città la capitale del regno berbero.
Con l'arrivo dei Normanni, esattamente nel 1087 la città aumentò il suo potere sociale e la sua prosperità economica. Si hanno nuove ed interessanti edificazioni in questo periodo come quella della Cattedrale e di Santa Maria dei Greci. Il settore economico fu valorizzato dai rapporti commerciali intrapresi nel periodo con il Nord Africa.
Nei secoli seguenti la città divenne residenza di baroni e di religiosi e nel XVIII secolo si assistette ad una ripresa economica; il centro cittadino si spostò dalla zona del Duomo a via Atenea, attuale corso della città.
Nel 1860 gli abitanti di Agrigento stanchi del malgoverno dei Borboni, aderirono con entusiasmo alle idee di Garibaldi che lottò per la libertà e l'unità del paese contro coloro che l'avversavano.
Durante la seconda guerra mondiale, Agrigento subì numerosi bombardamenti.
La città mantenne il nome di Girgenti fino al 1927 quando riprese il toponimo romano e il nome divenne Agrigento.


Nel centro storico di Agrigento visitate l'antica Cattedrale in stile Romano-Gotico, costruita intorno al XIV secolo. La chiesa ha una facciata davvero scenografica, è stata costruita nell'anno 1000 e ristrutturata più volte sino al XVII secolo. Molto interessanti sono il campanile del XV secolo con motivi in stile Gotico e Catalano e la balconata di origine Arabo-Normanna. Al suo interno si trova una statua della Vergine Maria del tardo XV e la cappella di San Gerlando in stile Gotico. La Cappella ospita le relique del Santo Patrono. Si dice che nel presbiterio si senta un sinistro suono, un indefinito effetto acustico... non suggestionatevi quel suono altro non è che l'eco di coloro che si trovano nelle vicinanze dell'entrata alla Cattedrale.


La strada principale della città è bella via Atenea, che iniziando nella parte orientale della città vecchia e arriva sino agli antichi Palazzi e alla chiesa di Santa Maria dei Greci. Questa chiesa fu costruita sopra un Tempio Greco del V secolo d.C. le cui colonne sono ancora visibili nella navata centrale e nel tunnel sotterraneo che rivela le fondamenta della chiesa stessa.

Il Museo Civico in Piazza Municipio ospita importanti sculture di origine Medioevale e Rinascimentale e una Galleria d'Arte del XIII e XVIII secolo, qui troviamo il famoso "Nettuno con Ninfea" del Giordani, la "Madonna con Angeli" attributa ad uno scolare di Vicenzo da Pavia e una "Madonna con bambino" del secolo XV attribuita ad un artista siciliano e di pregevole fattura.
Di notevole importanza è anche l'Abbazia di Santo Spirito costruita nel secolo XIII e più volte restaurata. La porta e la finestra mosaico della facciata sono di origine medioevale. Il soffitto interno possiede degli affreschi del Serpotta e una Madonna attribuita a uno scolaro del Gagini. L'abbazia è affiancata da un antico monastero dall'archittetura medioevale e da un suggestivo convento con diverse imponenti porte e archi.
Da citare anche le antiche rovine di una Villa Romana localizzata a pochi kilometri dalla costa da Porto Empedocle.

Da non dimenticare che Agrigento è anche conosciuta per aver dato in natali a Luigi Piandello. Visitate la sua casa natale e guardate le foto e i cimeli in essa custoditi. Particolarmente significative sono le foto che ritraggono lo scrittore mentre ritira il premio Nobel, conferitogli nel 1934.

Infine imperdibile la visita Valle dei Templi, ciò che resta della splendida Akragas. Qui il viaggiatore viene trasportato nella antica Grecia e nei misteri Dionesiani legati al culto d'amore di Apollo e Afrodite.
Il Tempio della Concordia è il più imponente dei templi della valle (13 x 6 colonne) ed è uno dei templi meglio conservati dell'antichità. 




LA VALLE DEI TEMPLI:



L'antica Akragas (Agrigento) era una delle più temute e ricche potenze del Mediterraneo, resa grande dalle gesta di eroi, leggende e personaggi illustri. Gli splendidi resti della città antica, descrita da Pindar come "la città più bella dei mortali", sono situati in uno splendido panorama con vista sul mare, e vengono considerati tra i più importanti resti dell'antica Grecia al di fuori della Grecia stessa.

Lungo un crinale si ergono numerosi templi, testimonianza della prosperità della città antica. I templi in stile dorico e costruiti in tufo calcareo, offrono una vista particolarmente suggestiva all'alba e soprattutto al tramonto, quando assumono una colorazione dorata.
Tutti gli edifici sono orientati verso est, per rispettare il criterio classico (sia greco che romano) che l'ingresso alla cella che ospitava la statua della divinità fosse illuminato dal sole nascente, fonte e principio di vita.

I tempi hanno tutti una formazione a sei colonne frontali ad eccezione del Tempio di Zeus il quale e'infatti composto da un muro che ricopre lo spazio tra le sette colonne. Il Tempio fu distruto e ri-edificato alla vittoria della popolazione dell'antica Agrigentum sui Cartaginesi ad Himera verso l'anno 480 a.c. Il Tempio è considerato uno dei più tempi più grandi mai costruiti nell'antichità essendo lungo 113 metri e largo 36; tuttavia, esso non fu mai completato. Una riproduzione in scala è presente all'interno del Tempio stesso.

Adiacente al Tempio si trova un Telamone di circa 8 metri d'altezza, con la sua tipica posizione di supporto, in questo caso come se stesse supportando l'imponente peso del Tempio stesso (il termine Talomone deriva dal latino, e allude alla figura mitologica di Atlas, il gigante dei Titani che fu condannato da Zeus a supportare il peso del cielo sulle proprie spalle; una volta scoperta la forma sferica del pianeta egli e'stato rapresentato con il Mondo nelle spalle).

Il più antico dei Tempi è il Tempio di Ercole, probabilmente del VI secolo a.c. ma solo 8 delle originali 38 colonne sono state ri-edificate. Nelle vicinanze vi troviamo la Tomba di Theron, così chiamata erroneamente in quanto tuttavia fu costruita in onore dei ceduti nella seconda guerra Punica.

Il Tempio della Concordia è il più imponente dei templi della valle (13 x 6 colonne) ed è uno dei Tempi meglio conservati dell'antichità. Risale, si suppone, intorno all'anno 430 a.C. e non si sa a chi fosse dedicato, risalendo al nome Concordia da un'iscrizione latina trovata nelle vicinanze. Il fatto che sia giunto integro fino a noi è da attribuire alla sua trasformazione in chiesa nel VI secolo. Esso offre una ben conosciuta ‘Illusione Ottica' in quanto le colonne si restringono verso l'alto cosi'da apparire piu'alte e insieme alla loro forma concava a circa 2/3 in altezza, danno all'osservatore il senso di una perfettissima linea retta cosi'da aumentarne la maestosità.

Più avanti vi troviamo il Tempio di Giunone, tuttavia in rovina con resti sparzi nel terreno adiavente, cosi'come lo sono quelli del Tempio di Castoro e Polluce.

Da non perdere, sono il Museo Archeologico Nazionale, ricco di collezioni della Valle dei Tempi, con vasi del VI e III secolo a.c. e la linea delle antiche Ville con dei bei mosaici.



                                                        LEGGENDE E MITI



LA LEGGENDA DI PROMETEO:



C’era una volta l’uomo, misero, non aveva armi, ne vesti, viveva selvatico nei boschi cibandosi di selvaggina cruda e frutta; per vestirsi si copriva di foglie, per difendersi dalle belve possedeva solo sassi e grossi rami.
Si riparava dal sole e dal gelo in caverne profonde dove erano simili a miseri ciechi, tremanti, indifesi in un mondo senza luce. Prometeo che voleva bene agli uomini non pote’ sopportare a lungo lo spettacolo di quell’umanita’ miserabile. Un giorno Prometeo disse: ”voglio aiutarli che la loro vita diventi meno selvaggia, che imparino a difendersi dalle belve, che coltivino la terra ,lavorino i metalli e si nutrano di cibi caldi e non sanguinanti e crude. Voglio donargli il fuoco”.
Prometeo comunque sapeva che un dono (furto) simile avrebbe contrariato Giove e sarebbe stata la sua rovina, ma generoso e risoluto decise di sfidare l’ira del Dio. Sali’ quindi sulla montagna dove gli Dei banchettavano felici circondati dal fuoco divino. Entro’ nelle fucine di Vulcano e gli offri’ un’anfora contenente vino Etneo, Vulcano accetto’ e mando’ giu’ in un sorso (arso da tutto quel calore) il rosso liquore dell’Etna.
Dopo un po’ il capo di Efesto (Vulcano) comincio’ a piegarsi e gli occhi piccoli piccoli si chiusero nel sonno. Prometeo era stato previdente, aveva mescolato al vino molto succo di papaveri. Il fuoco divino era li’ incustodito quindi il buon Prometeo imprigiono’ nella ferula (ferula communis che nel nostro dialetto siciliano si chiama finucchiazzu) una scintilla di fuoco e via a dare la bella notizia ai desolati uomini: Vi porto la gioia, la vita.
Accatasto’ molte fascine secche e accese un immenso rogo che sali’ fino al cielo. Giove udi’ gli urli di gioia e corrugando la fronte tuono’ e ordino’ a Vulcano di preparare delle catene enormi per incatenare Prometeo. Il Dio del fuoco, sia pur a malincuore, poiche’ voleva bene al Titano, dovette legare il gigante, con l’aiuto dei Ciclopi dal grande occhio in mezzo alla fronte, alle rupi del monte Caucaso. Mentre Vulcano gli stringeva le catene gli diceva: ”capisci che rovina e’ la tua mio povero Prometeo, non udrai piu’ nessuna voce umana e nessuno ti consolera’,il tuo corpo sara’ disseccato dal sole,sarai flagellato dal vento, chissa’ per quanti anni resterai incatenato,ma poiche’ sei immortale i tuoi occhi non potranno chiudersi nel riposo del sonno eterno”.
Giove non era soddisfatto, quindi ogni giorno mandava un’aquila gigante che si cibava del fegato del martire e miracolosamente si riformava di nuovo al sorgere del sole. Prometeo lanciava urli inumani, inutilmente le Ninfe cercavano di far salire fino a lui dolcissimi canti. Dalle labbra arse uscivano incontenibili lamenti, ma Prometeo era contento, la sua sofferenza aveva dato agli uomini la felicita’.
Trent’anni passarono finche’ un giorno Giove ebbe pieta’ e libero’ il gigante accogliendolo nei felici giardini dei campi Elisi. Prometeo vive ancora ogni volta che un martire muore per la fede o per la gloria, lo spirito del gigante gli alita attorno e infiamma le anime degli uomini generosi.

I giganti di Naro
La leggenda sulle origini del paese di Naro e i riscontri che hanno alimentato notevoli dubbi.
Secondo la leggenda i primi abitatori della Sicilia sarebbero stati i Giganti.
La leggenda vuole Naro edificata dai Giganti dopo il diluvio universale.
L’ipotesi viene avvalorata da Paolo Castelli e da Fra Salvatore Cappuccino.
Fra Salvatore Cappuccino, rifacendosi all’archivio del Regio Ufficio Giuratorio, Foglio 1, riporta la notizia secondo la quale “nel Sec XV quando si doveva costruire il cappellone della chiesa madre, si rinvenne nelle fondamenta abbondanza di crani, cannelle, denti ed altre ossa gigantesche .”
Nel 1782 secondo il dott. Francesco Barone: alcuni contadini nei dintorni del castello trovarono un teschio enorme, tanto da contenere al suo interno un tumulo di grano.
Il sac. Gaspare Licata nel 1784, racconta che nella casina di don. Giuseppe Torricelli, si doveva fabbricare un magazzino e nel suolo fu rinvenuto uno scheletro gigantesco, il cui cranio poteva contenere tre mondelli di frumento.





L'ORO ROSSO DI SCIACCA
La leggenda della scoperta del corallo.
L’antica poetica leggenda sulla scoperta del corallo di Sciacca. Nasce con la storia di Alberto Ammareddu, pescatore che amava Tina, una ragazza, che gli aveva donato una medaglia in segno di amore.
Un giorno facendo manovra, la medaglia gli cadde in mare.
Senza pensarci due volte si tuffò per recuperare la medaglia e scoprì il corallo.
Questa è la poetica leggenda sulla scoperta del corallo, che si tramanda da una generazione all’altra.
In verità, nel mese di marzo del 1875 tre pescatori saccensi:Alberto Maniscalco detto Ammareddu ,Alberto Occhidilampa e Giuseppe Muschidda si trovavano a pescare a 8,5 miglia da Capo San Marco e rimasero impigliati con le reti, scandagliando il fondale per verificare la causa per cui si erano impigliati si trovarono uno scoglio del tutto rivestito di corallo.
Furono successivamente trovati diversi banchi di corallo,il primo era di circa 6000mq con profondità da 70 a 125 metri dal quale si ottenne più di 1000 tonnellate di corallo.
Così nacque il periodo dello “oro rosso” di Sciacca.




La Sacra reliquia:

Il frammento della Sindone che ad Aragona durante i venerdì di marzo, si tinge del sangue di Cristo.
Giulio Tomasi di Lampedusa, fondatore di Palma, aveva ottenne dai Savoia una copia estratta dall’originale della Sacra Sindone di Torino, nell’anno 1656.
Nel 1684, il principe di Aragona Baldassare IV Naselli, avendo la figlia Melchiorra sposato il figlio di Giulio Ferdinando I Tomasi, ottenne un frammento del sacro lenzuolo.
L’ argentiere palermitano Omodei, modellò per questa preziosa reliquia, un reliquiario a pendente, chiuso in una cornicetta con smalti neri su oro.
Già in una relazione del ‘700, si parla dell’esistenza di “insigni” reliquie, “di due buone pezzetti della Sindone fregiati della tintura del divino sangue” che “in ogni venerdì di marzo quando si espone in chiesa comparisce la tintura assai carica di vermiglio colore”. La reliquia veniva precedentemente custodita nella chiesa madre e successivamente in altre chiese, fino alla fine degli anni ’60, quando scomparve.
Venne successivamente ritrovata nella cripta della Chiesa del Rosario nel corso dell’ultimo restauro.
Sono molte le persone, che assicurano che ogni Venerdì di Marzo, quando la reliquia viene esposta in Chiesa, riappare “la tintura assai carica di vermiglio colore”, la quale è per tutto il resto dell’anno di colore molto tenue.

Canicattì: le leggende:
Sono tante le leggende che riguardano il territorio di Agrigento. Molte quelle che parlano di tesori nascosti e fiere incantate, come quella che si svolgerebbe a Businè (Raffadali) o in contrada Macalubbe (Aragona). Canicatti, centro agricolo famoso per la sua uva, poco distante da Agrigento, è comunque forse uno dei posti dove la fantasia popolare ha creato più leggende di quante non ne abbia creato in altri luoghi.Tra le tante storie, create dalla fantasia degli abitanti di Canicattì, ne abbiamo scelto alcune da proporre.
In località “Soldano”, la leggenda vuole che ogni sette anni si tenga una fiera magica. La fiera si svolgerebbe a partire dalla mezzanotte fino alle prime luci dell’alba
Si narra, che notte a un contadino del luogo, fosse scappato uno dei suoi animali.
Svegliato dal latrare dei cani, il contadino si accorse dell’accaduto e prese ad inseguire l’animale fuggito.
Quando lo raggiunse, si ritrovò nel bel mezzo di un mercato, dove molti venditori esponevano le proprie mercanzie.
Viste delle bellissime arance, decise di acquistarne tre.
Tornato in paese, racconto tutto al padrone, il quale intuito di cosa si fosse trattato, offrì una discreta somma in cambio delle arance.
Il contadino soddisfatto dell’offerta, tornò a casa felice per aver fatto un affare, ignaro di aver ceduto tre grosse arance, che si erano nel frattempo trasformate in oro.
Si racconta in paese, che ai primi del 900, nella proprietà denominata “Vito Soldano”, furono rinvenute da contadini del luogo, circa 1000 monete d’oro.
Quello che tutti danno per certo, è che la famigli che ebbe successivamente la proprietà del fondo, rinvenne parecchie monete e monili di epoca romana e bizantina.
Tanto, che uno degli esponenti di questa famiglia, denunciò un furto commesso in suo danno in un noto albergo del nord Italia, nel corso de quale gli furono portati via monili e monete in oro, di particolare pregio e tutte provenienti da quel sito.
Un’altra storia popolare, narra di due fantasmi apparsi in sogno ad un poveraccio del paese, che suggerivano indicazioni su dove trovare sempre in quel luogo, una gran pentola in terra cotta, stracolma di monete d’oro.
Unica condizione era quella di recarsi da solo a fare lo scavo.
Il poveraccio, avendo paura ad andare solo di notte, si recò con un amico, ma ebbe l’amara sorpresa di trovare sì la pentola, ma piena di gusci vuoti di lumache.
C’è chi giurerebbe, che un simile rinvenimento, avvenne ad opera di un tale che fatto lo stesso sogno, trovò un piccolo tesoro sepolto ai piedi di un albero in contrada Corrice.
Diversa la qualità delle storie che si narrano sulla località Casalotti.
Quì si parla infatti, di un’idra incantatrice e di storie di orrori da fare accapponare la pelle.
Esiste una cosa che accomuna i tanti luoghi delle leggende agrigentine.
Essi sono infatti tutti luoghi interessati dalla presenza di insediamenti romani o greci e in ognuno degli stessi sono stati effettuati rinvenimenti di notevole importanza.
Forse la spiegazione alle storie dei tesori, sta nella furbizia di chi avendo depredato i luoghi, ha voluto giustificare con il misterioso suggerimento da parte di fantasmi, l’avvenuto rinvenimento, mettendo a protezione dei siti idre immaginarie, fantasmi e giganti.
La verità è comunque quella che questo territorio, ha ancora molto da regalare.
Le tante leggende di Canicattì, prendono forse spunto dalla più antica, secondo la quale sarebbe sepolto in quel territorio, il tesoro di Troia.

S.Calogero:
San Calogero, abbreviato dagli agrigentini come San Calò, viene festeggiato dalla prima alla seconda domenica del mese di luglio.
Santo venerato dagli agrigentini, i quali tributano a lui onori anche superiori a quelli riservati al Santo patrono della città.
La statua che rappresenta il Santo è di colore nero.
Il Santo che visse tutta la sua vita da eremita, arrivò nella città di Agrigento intorno al XVsec.
Giunto in città, dopo essere stato precedentemente a Sciacca, dove aveva già acquistato fama di grande taumaturgo e si era reso protagonista di eventi prodigiosi, quale quello di aver fermato il terremoto del 1578, dedicò la sua opera alla guarigione di molti ammalati.
Conosciuto infatti, quale uomo di grande cultura, abile guaritore e capace di prodigi, ben presto la comunità agrigentina affidò a lui la cura delle anime, ma anche quella della salute.
La sapienza del Santo nero, è simboleggiata dal libro posto tra le mani della statua.
Durante il periodo di festeggiamenti in suo onore, tradizione vuole che chiunque abbia ricevuto dal Santo una grazia, dedichi al medesimo un viaggio “inpiduni”, cioè a piedi scalzi o offra un pane raffigurante la grazia concessa.
Il momento dell’offerta o del viaggio è quello delle prime due domeniche di luglio.
Particolare assai curioso, che i pani offerti, vengono lanciati al Santo, dai balconi delle vie dove si svolge la processione.
La ragione di tale forma di offerta è riconducibile all’attività svolta da San Calo’.Infatti, il Santo nero nel periodo in cui visse, ebbe a prendersi cura degli ammalati di lebbre della città di Agrigento.
Andando pertanto nelle vie cittadine a chiedere la questua, la gente che non osava avvicinarsi per timore di contrarre la terribile malattia, gettava da lontano le proprie offerte.
Il nome Calogero, significa bel vecchio, aggettivo con il quale venivano indicati gli eremiti.
Le spoglie di San Calogero, tumulate inizialmente sul monte Kronio di Sciacca, furono successivamente trasferite nel monastero di San Filippo presso Messina.
La festa in onore di San Calogero, è una delle più importanti della Sicilia Orientale.
La seconda domenica, oltre la processione del Santo lungo le vie cittadine si svolge una sfilata con i tipici carretti siciliani.
Sono carretti trainati da cavalli accuratamente scelti, decorati in maniera particolare, con intarsi raffiguranti gesta epiche, quali quelle dei paladini, dipinti con colori molto vivaci su sfondo giallo.
San Calò, che è anche il Santo protettore delle messi, è quello al quale i fedeli chiedono le grazie di pronta guarigione.
La festa di San Calogero, così come per molte altre feste sacre, raccoglie in sè aspetti della fede cristiana, misti a ritualità più di carattere pagano.


Capo Rossello – u zitu e a zita:
Capo Rossello è una località balneare nel territorio di Realmonte in provincia di Agrigento. Un’antica leggenda motiva la presenza di due scogli dall’aspetto caratteristico.
A Capo Rossello, esistono due scogli denominati “u zitu e a zita”.
La leggenda vuole che due innamorati persero la vita proprio in quel luogo.
I due infatti, perirono lì tra le onde del mare.
Fino a quel momento si racconta, che non esisteva sul posto alcuno scoglio.
Fu solo dopo il tragico evento che affiorarono gli scogli oggi denominati u zitu e a zita, ai quali diedero questo nome gli abitanti del luogo, memori della tragedia accaduta e ritenendo di individuare in quegli scogli la sfortunata coppia di innamorati.
Sarà a causa del posto molto suggestivo e della posizione dei due scogli, il motivo per cui la sera al tramonto, si ha l’impressione di intravedere nei medesimi una coppia di innamorati.


La lettera del Diavolo:
La Lettera del Diavolo, scritta in caratteri incomprensibili, simili all’arabo ed all’aramaico. Si trova custodita nel Monastero di clausura di Palma di Montechiaro, ma si dice che si tratti di una copia, mentre la lettera originale sarebbe custodita presso la cattedrale di Agrigento
Secondo alcune fonti, la lettera custodita nel Monastero di clausura di Palma di Montechiaro, sarebbe infatti una copia, poichè l’originale si troverebbe nell’archivio della Cattedrale di Agrigento, conservata assieme ad un manoscritto che narra la vita di suor Maria Crocifissa.
Su questa lettera, gli studiosi si sono arrovellati inutilmente, poichè la lingua nella quale è scritta, non risulta tra le lingue conosciute.
Si racconta, che fu il Demonio personalmente, a consegnarla ad una suora benedettina, suor Maria Crocifissa della Concezione (Isabella Tomasi1645-1697), per tentarla.
Quando il Demonio diede alla suora la lettera, gli chiese di firmarla, ma suor Maria Crocifissa, intuiti i contenuti della lettera e le finalità del Maligno, lo trasse in inganno scrivendo solo: ohimè.
In piazza Provenzani a Palma di Montechiaro, si trovano la Chiesa e il Convento benedettino del SS. Rosario, dove sarebbe custodita sia la lettera che un sasso, dato anch’esso dal Diavolo.
Le spoglie mortali della Beata Suor Maria Crocifissa, sono sepolte nella chiesetta del Monastero.
Palma di Montechiaro dista pochi chilometri da Agrigento.



La Madonna di Villafranca:
Il quadro della Madonna dei Mirti e la sua storia.
A Villafranca Sicula, esiste una piccola chiesa dedicata alla Madonna dei Mirti, posta in piena campagna.
Si racconta di un vecchio frate, il quale rientrava al convento di Burgio, dal quotidiano giro per raccogliera le elemosine , portando in groppa al suo asino due quadri.
Uno di essi, raffigurava la Madonna.
Arrivato nei pressi del convento, il buon frate, si accorse di aver perso quest’ultimo quadro e tornato subito indietro sui suoi passi, lo ritrovò dentro un cespuglio di mirti.
Appena tornato al convento, raccontò l’accaduto agli altri frati, ma volendogli mostrare il quadro della Madonna, si accorse che era nuovamente scomparso.
Il quadro venne ancora una volta rinvenuto dentro lo stesso cespuglio di mirti dove lo aveva ritrovato la volta precedente, lungo la strada per Villafranca.
Fu così che avendo capito che la Madonna voleva essere onorata in quel luogo, venne edificata la chiesetta di campagna della Madonna dei Mirti di Villafranca Sicula.


Siculiana e il Cristo nero:


Nel mese di maggio, si festeggia a Siculiana il Cristo nero.
In occasione della festa, ai primi di maggio, gli emigrati tornano in paese e i fedeli sfilano a piedi scalzi.
Si narra, che la statua del Cristo appena spirato, fu commissionato dagli abitanti di Burgio.
Mentre veniva trasportato per essere consegnato, la leggenda vuole, che i due portatori incaricati, si fermassero a riposare presso l’antico casale di Siculiana.
Posata la cassa con il Cristo in una stalla, i due presero a riposarsi.
Passava da lì un cieco, il quale ignorando il contenuto della cassa, vi si sedette sopra.
Arrivati i portatori, ingiunsero al poveraccio di alzarsi immediatamente e fu allora, che costui si accorse che ci vedeva.
Diffusasi la voce del prodigio, gli abitanti del paese portarono il crocifisso in processione alla chiesetta del castello.
Una seconda leggenda, narra di una vecchietta, che sognò il crocifisso che le chiedeva di liberarlo dall’interno di una grotta, dove due ladri che avevano trafugato la cassa, convinti che contenesse preziosi, lo avevano riposto.
Gli abitanti di Burgio, appresa la notizia del rinvenimento del crocifisso da loro commissionato, ne reclamarono la restituzione.
Da ciò ne derivò una disputa tra i due paesi che si contendevano il diritto di possesso della statua.
Non potendo arrivare a soluzione alcuna, i contendenti vennero ad un patto.
La statua sarebbe stata trainata da boui, fino ad oltrepassare il torrente Catania e solo se ciò non fosse accaduto, avrebbero letto in questo evento la volontà del Cristo di restare a Siculiana.
La leggenda vuole che i buoi si rifiutarono di oltrepassare il torrente e così il Cristo rimase ai siculianesi.


La cattedrale di Agrigento e il fenomeno del “portavoce”:

Sapevi che nel presbiterio della Cattedrale di Agrigento, si verifica un fenomeno curioso?
Questo fenomeno, viene detto del ” portavoce”.
E’ infatti così chiamato, perchè dal presbiterio, che è la parte più interna della chiesa, chiunque può sentire quanto viene bisbigliato all’ingresso della Cattedrale di Agrigento.

Empedocle:
Empedocle, filosofo agrigentino, amava mostrarsi agli altri come un Dio…
Forse è dalla vanità e dall’egocentrismo di Empedocle, che prende spunto la leggenda che lo vede come protagonista.
Uomo di grandi capacità e che non conosceva vie di mezzo, visse da indiscusso protagonista nell’antica Akragas.
Creò attorno la sua figura un alone di mistero, da farlo assurgere quasi a divinità.
A lui infatti, si attribuisce il miracolo della scomparsa di una pestilenza a Selinunte e la resurrezione di una donna.
Amante della conoscenza diretta delle cose, coraggioso e sicuro, amava strabiliare i suoi contemporanei con gesta impossibili ad altri.
Salito sul vulcano Etna, per studiarne i fenomeni, vi costruì la sua casa.
Sulla sua morte, rimangono comunque dei misteri.
Le fonti storiche infatti, la riportano nella zona del Peloponneso dove andò a seguito del suo esilio.
Ma la leggenda narra, che si gettò all’interno del cratere dell’Etna per dimostrare la sua immortalità, elevandosi a divinità.
Sempre la leggenda, ci dice che il vulcano accettò l’anima del filosofo, ma rifiutandone la materialità, il cratere eruttò uno dei suoi sandali.
Ad Agrigento sono a lui dedicate vie e scuole e la vicina Porto Empedocle prende da lui il proprio nome.


Le macalubbe di Aragona in provincia di Agrigento:
Una zona tanto suggestiva e particolare come quella di Macalubbe, non poteva non entrare a far parte delle storie popolari che intere generazioni si tramandano di padre in figlio.
L’area di Mcalubbe, è caratterizzata dalla presenza di coni somiglianti a piccoli crateri vulcanici, dai quali fuoriesce una fanghiglia molto fluida e che secondo i periodi e le quantità di gas che vengono rilasciate dal terreno, da luogo a eruzioni con conseguente lancio in aria di fango, anche per alcuni metri di altezza.
La collina, ricade nel territorio comunale di Aragona, a pochi chilometri da Agrigento.
La mancanza di vegetazione e il colore grigio dell’argilla, unitamente ai piccoli crateri, creano una strana atmosfera, quasi da paesaggio lunare.
Le prime notizie storiche, risalgono al filosofo Platone, il quale già citava nei suoi scritti questo fenomeno.
Nel corso della storia, molte leggende sono nate sulle origini di Macalubbe, come quella che legherebbe la sua nascita ad una battaglia tra Arabi e Normanni.
Fu una battaglia molto cruenta e l’enorme spargimento di sangue, contribuì a creare la leggenda, secondo la quale la fanghiglia nasca dal sangue dei Saraceni.
La leggenda più conosciuta, narra invece dell’esistenza di una città sorta in passato sopra la collina di Macalube.
Una pacifica e ricca città, all’interno della quale sorgeva una bellissima chiesa sul cui campanile era posto un gallo d’oro.
Quando un giorno, scoppiò una rissa tra due fazioni contendenti, la divinità che dimorava nella collina, per punire gli abitanti, fece sprofondare la città, lasciando al suo posto questa grande distesa di fango senza apparenti tracce di vita.
La leggenda vuole, che circa ogni sette anni allo scoccare della mezzanotte, la città riemerge dal fango con tutti i suoi abitanti e con il gallo d’oro.
In quella circostanza, si svolge un mercato e chiunque si trovi casualmente ad assistere a tale evento, può acquistare mercanzie che diventeranno subito d’oro.
Ancora oggi, capita in piena notte di udire potenti boati, causati da spettacolari esplosioni di fango, che riportano alla mente la leggenda della città sepolta.


Il toro:
La leggenda di Falaride, tiranno dell’antica Akragas, al quale sono riconducibili molti resti degli edifici sacri della Valle dei Templi di Agrigento.
Falaride fu uno dei grandi tiranni dell’antica Akragas.
Dal 570 a.C.fino alla sua morte, egli si impegnò nel far diventare Akragas, una delle potenze economiche e militari più importanti dell’epoca.
Ma se Falaride fu un grande uomo di governo, capace di avviare gli imponenti lavori pubblici di cui ancora oggi possiamo ammirare i resti, fu anche uno dei tiranni più crudeli della storia.
Secondo la leggenda infatti, il tiranno commissiono all’ateniese Perillo, un gigantesco toro di bronzo vuoto al suo interno.
Si narra, che all’interno del toro, arroventato da una grande fiamma accesa sotto la parte ventrale, Falaride facesse perire i suoi nemici, delle cui urla, simili ad un muggito che fuoriusciva dalla bocca del bronzeo animale, il tiranno si compiaceva.
Affinchè nulla turbasse il suo momento di gioia, si premurò anche che i fumi emessi, profumassero d’incenso.
Si narra inoltre, che una volta riaperto il toro, le ossa delle vittime luccicassero come gioielli e pertanto venissero utilizzate per fabbricare monili.
La crudeltà di Falaride, non risparmiò neppure Perillo, il quale venne fatto entrare all’interno del toro per provare gli effetti sonori e vi fu rinchiuso.
Accesa la fiamma e soddisfatto per le urla di Perillo, prima che l’inventore morisse, Falaride lo fece uscire, ma anzichè risparmiarlo lo scaraventò dall’alto di una rupe.
La leggenda vuole, che il tiranno stesso sia stato condannato a morire nel toro, quando venne rovesciato da Telemaco.
Anche le antiche leggende, fanno parte della città di Agrigento e della Valle dei Templi.



Il mandorlo:
Ad Agrigento, famosa nel mondo per la Valle dei Templi, si svolge ogni anno in primavera la “Festa del mandorlo in fiore”. Ma quanti sanno della leggenda del mandorlo?
Quella del mandorlo, è una delle coltivazioni tipiche della nostra isola, ma è ad Agrigento, che si svolge la festa del “Mandorlo in fiore”, dedicata alla primavera.
Con l’inizio della stagione primaverile, ma spesso già sul finire dell’inverno, la Valle dei Templi si ammanta di bianco.
Sono i fiori del mandorlo, che ancor prima che spuntino le nuove foglie, arricchiscono i rami spogli, tingendo di bianco uno dei posti più suggestivi della Sicilia.
Secondo un’antica leggenda, la fioritura del mandorlo, sarebbe da ricondurre alla storia di Acamante e Fillide.
Fillide, giovane e bellissima principessa Tracia, figlia di Sitone, era innamorata di Acamante, figlio di Teseo e Fedra.
Durante la guerra di Troia, Acamante partì con Diomede, al seguito degli Achei.
Trascorsi dieci lunghi anni, durante i quali la bella principessa aveva atteso il ritorno dell’amato, i superstiti tornarono dalla guerra.
La principessa, non vedendo tra loro Acamante, ritenne che fosse morto e presa dalla disperazione, si tolse la vita.
La dea Atena, impietositasi per questa tragedia, trasformò Fillide in un albero; il Mandorlo.
Ma Acamante, non era morto.
Tornato tardivamente in patria, seppe della morte di Fillide e della sua avvenuta trasformazione in mandorlo.
Cosa restava ad Acamante se non abbracciare piangendo l’albero nel quale era stata trasformata la sua amata?
Fu così, che all’improvviso, i nudi rami del mandorlo si ricoprirono di fiori anzichè di foglie, quasi a voler ricambiare il tenero abbraccio di Acamante.
Ancora oggi, nella Valle dei Templi, si ripete il miracolo di una primavera precoce, che con i candidi fiori del mandorlo, ci ricorda la storia d’amore di Acamante e Fillide.


LA LEGGENDA DEL MANDORLO :


C'era una volta una principessa greca di nome Filide che si innamorò di Acamante, valoroso figlio di Teseo.
Quando gli Achei partirono alla volte di Troia anche lui, giovane e forte guerriero si unì alla spedizione.
Passarono gli anni e per Filide l'attesa del ritorno del suo amato sembrava non volere finire mai.
La giovane trascorreva il suo tempo in una spiaggia in preda alla preoccupazione ed alla disperazione, nella speranza di vedere apparire all'orizzonte la nave che avrebbe riportato Acamante a casa. Ma l'ansia fu troppa, tanto da spezzare il suo giovane cuore, così la povera Filide morì di crepacuore 
credendo che il suo amato non avrebbe più fatto ritorno dalla guerra.
Acamante, però non era morto. Solo innumerevoli traversie ne stavano ritardando il rientro dopo che, caduta Troia, la flotta achea aveva issato le vele per rientrare in patria.
Ma quando finalmente giunse era già troppo tardi: la sua amata Filide era già morta. Sulla spiaggia, però, là dove lei aveva trascorso lunghe ore di tristezza e di pianto, Acamante trovò uno snello albero di mandorlo. Preso anche lui dalla disperazione e dallo sconforto, abbracciò ed accarezzò il tronco, perso nel ricordo del suo amore, all'improvviso la pianta si coprì di fiori candidi e profumati.




 




Spettri – Spiriti – Fantasmi:
Anche in Sicilia, come da più parti del mondo, si tramandano di generazione in generazione storie di strane apparizioni, di rumori, voci o pianti provenienti dal nulla.
Tali fenomeni, vengono indicati con diversi nomi, spiriti, fantasmi, spettri.
Sono di norma storie ambientate in luoghi che nel passato, furono teatro di tragedie, di vite prematuramente spezzate in maniera violenta e non di rado per ragioni di gelosia.
Spesso, tali storie o leggende, riguardano personaggi storici e i luoghi dove gli stessi vissero.
Il castello chiaramontano che sorge a circa due chilometri da Mussameli, costruito nel 1370 per volere di Manfredi III di Chiaramente, per esempio, è uno di quei luoghi, dei quali si racconta che gli spiriti, manifestino con una certa frequenza la loro presenza.
Accanto alla Sala dei Baroni, posta nel piano inferiore del castello e dove la tradizione vuole che nel 1391 si riunirono tutti i baroni della Sicilia, c’è una piccola saletta, dove secondo un’antica leggenda, sarebbero state murate vive tre giovani ragazze, ad opera di un barone molto geloso.
Ancora oggi, non sono pochi coloro che raccontano di aver visto i loro spettri girovagare tra le rovine del Castello.
Un altro castello, abitato da uno spettro, sarebbe quello di Naro, paese a pochi chilometri da Agrigento.
Qui, si narra, che nelle notti di luna piena, si agiti senza pace il fantasma di Giselda, la bella castellana, morta di crepacuore nella torre del castello, rinchiusavi dal marito Pietro Calvello, perché innamoratasi del paggio Beltrano.
Scendendo da Naro, in direzione della strada che collega Agrigento a Palma di Montechiaro, si arriva alla Serra di Furore.
È qui. che secondo un’altra leggenda, l’avido nobile Blasco Migliaccio di Naro, venne rinchiuso in una grotta piena di ogni ricchezza e ivi lasciato perire.
Ogni sette anni, si sentirebbero ancora le sue urla spezzare la quiete della notte.
Ma anche nella città di Agrigento, non mancano le storie di apparizioni spettrali o dei cosiddetti fenomeni paranormali.
Percorrendo la principale arteria cittadina, la via Atenea, anch’essa non priva di storie di “presenze”, si arriva alla Piazza del Purgatorio, all’angolo della quale, si trova uno degli ingressi del più grande ipogeo agrigentino: il labirinto.
Tra la chiesa di San Lorenzo, che si affaccia sulla piazza, e quella di Santa Rosalia, posta lungo la via Atenea, c’è una stretta viuzza, la via Foderà.
Alcuni decenni or sono, qualcuno narrava di aver visto a notte fonda, una processione di suore, scendere e poi risalire la via Foderà, accompagnando in assoluto silenzio il feretro di una consorella.
Andando oltre, superato il Municipio, inizia la via Garibaldi.
Alla fine della strada, in prossimità della Chiesa dell’Addolorata, c’è un costone calcarenitico, nel quale si vedono ancora realizzate antiche dimore scavate nel tufo.
Non sono pochi coloro che sarebbero pronti a giurare di aver visto passando di notte nella zona, la figura di un uomo vestito con panni ottocenteschi e con un cappello scuro, posto sull’alto del costone.
Si racconta, che in quel luogo, tanto tempo addietro, avvenne un duplice omicidio.
Di un’abitazione vicina, si racconta che nella notte si sentono strani rumori ed in passato, nottetempo, alcuni inquilini hanno abbandonato la casa.
Ma c’è anche, chi in edifici abitati da tali presenze, ci si è trovato tanto bene da non voler mai cambiare di casa.
Storie di case popolate da spiriti, ne esistono tante.
A partire da alcuni vecchi edifici della via Atenea, alla parallela via Pirandello, alla vicina via Santo Spirito, fino a quelle più conosciute che riguardano la via Plebis Rea e via Duomo.
È proprio nei pressi della via Plebis Rea, parte alta del centro storico, dove anche Pirandello ambientò una delle sue novelle, che esiste un’antica costruzione, nella quale si narra che ogni notte più spettri si aggirino senza pace.
Rumori, voci e pianti, non lasciano dormire gli eventuali, quanto improbabili, inquilini.
Qualcuno, racconta anche che in passato scendendo le scale dell’antico orfanotrofio, trovò sugli scalini un bimbo appena nato.
Ma calatosi per prendere la creatura, questa con un sorriso mostrò una dentizione perfetta da essere adulto e dinanzi lo stupore del malcapitato, con voce roca rispose: chi talii i denti? E ancora unnà vistu li scagliuna… (cosa guardi i denti? E ancora non hai visto i canini…).
Recente è la storia di una giovane ragazza, vista più volte in piena notte lungo la Panoramica dei Templi, piangere seduta al bordo della strada.
In molti raccontano di averne udito il pianto o i lamenti.
Si dice anche, che un agrigentino vedendo la ragazza, si fermò con l’auto e le diede un passaggio a casa.
Apprese l’indomani, e in maniera drammatica, che la donna che aveva accompagnato, era morta tragicamente tempo prima.
In un altro luogo, qualcuno racconta di aver udito distintamente la voce di un commerciante, intendo a vendere la sua mercanzia, anni dopo che nello stesso posto era stato assassinato.
Un antico caseggiato ormai in rovina, si trova su una collina di fronte al mare, nelle vicinanze della località balneare di San Leone (Ag).
Tra le tante leggende nate su questo luogo, riportiamo quella che forse diede origine alle altre.
Intorno ai primi del ’900, uno dei figli della proprietaria della casa, si imbarcò per andare negli USA.
Durante il lungo viaggio, il giovane si ammalò e in punto di morte, consegnò ad una suora che lo assistiva, una lettera da far recapitare alla madre.
Nel frattempo, la madre del giovane, svegliatasi in preda ad uno stato di agitazione, vedeva, o immaginava, la scena del figlio morente e svegliato il marito, raccontò piangendo della strana visione.
Qualche tempo dopo, ricevette la lettera di una suora, che oltre a confortarla per la morte del figlio, allegava alla sua, anche la lettera scritta da quest’ultimo alla madre.
La data dell’avvenuto decesso e l’ora riportata con quella italiana, erano le stesse di quando la donna aveva avuto la strana visione.
Da allora, più volte si parlò dei “fantasmi della casa”.
Molte le storie che si raccontano, spesso nate a seguito di tragici eventi, e forse alimentate da facili suggestioni.
Comunque sia, passano i decenni, i secoli, ma le leggende si tramandano e si rinnovano da una generazione all’altra.



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