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giovedì 14 marzo 2013

TRAPANI


La mitologia greca vuole che questo territorio fosse governato da Erix, quella romana che la città di Trapani sia stata originata dalla falce caduta a Cerere mentre sul carro trainato da serpi alati correva per il mondo alla ricerca della figlia rapita dal dio Ade: la falce caduta in mare si mutò in una lingua di terra arcuata sulla quale sorse una città, per tale forma detta appunto Drepanon("falce" in greco antico). Secondo un'altra tradizione mitologica, Trapani sarebbe invece sorta dalla falce caduta dalle mani di Saturno dopo aver evirato il padre Urano. Saturno era anticamente il dio patrono di Trapani e ancora oggi si può ammirare una statua che lo ritrae posta a ornamento della fontana che si trova in piazzetta Saturno, nel centro storico.
Per altri ancora, Trapani nacque dall'amore sorto tra il cielo e il mare. Per alcuni ricercatori, tra cui l'inglese Samuel Butler, Scherie, la città dei Feaci descritta nell'Odissea di Omero sarebbe proprio l'odierna Trapani.

Enea porta sulle spalle il padre Anchise (vaso attico)
Nell'Eneide, fra le avventure dell'eroe troiano EneaVirgilio racconta quella che lo portò a Drepano (Trapani) in Sicilia, accolto da Aceste, figlio di Crimiso e di Egesta. Qui morì Anchise e qui il pio eroe ne seppellì la salma sul monte Erice tornandovi successivamente dopo la fuga da Didone e celebrando con giochi grandiosi la memoria del genitore, giochi chiamati ludi novendiali, che potrebbero essersi svolti nella piana di Pizzolungo, alla periferia di Trapani. Questa narrazione accredita l'ipotesi che ai tempi di questi giochi esistesse già il piccolo borgo drepanitano.
Al di là delle suggestioni mitologiche, è storicamente accertato che Trapani fu fondata dagli Elimi in una data sicuramente anteriore alla caduta di Troia (1260 a.C.). Dunque, gli Elimi, originari abitanti di Erice, fondarono in pianura un villaggio in prossimità del mare e delle terre coltivate per stabilire un centro di collegamento tra la vetta - in cui essi risiedevano e si rifugiavano per ripararsi da eventuali attacchi esterni - e il posto di lavoro, dove si dedicavano all'agricoltura e alla pesca dalla terraferma. Quando nel IX secolo a.C. i Fenici dalla vicina Cartagine si mossero verso le coste occidentali della Sicilia, trovarono già costruito dagli Elimi il borgo di Trapani e con questi ultimi lo abitarono pacificamente. Il piccolo villaggio di Trapani doveva sorgere su un promontorio, quasi un'isola, più o meno corrispondente all'attuale quartiere di San Pietro (o Casalicchio), diviso dall'entroterra paludoso mediante un canale navigabile che metteva in comunicazione il mare di Tramontana con quello di Mezzogiorno. Con la creazione della colonia fenicia il villaggio doveva contare meno di 500 abitanti. L'immigrazione dei Sicani prima (già insediati nella Sicilia occidentale), e dei Fenici e dei Cartaginesi poi, fece di Trapani una città-emporio per la sua felice posizione geografica.


LE SUE LEGGENDE:

La Fata Morgana
Morgana, sorella del re Artù, venuta a visitare la Sicilia, abbia deciso di rimanerci, stabilendo la sua dimora tra l’Etna e lo stretto di Messina. Si narra che da più di mille anni ogni tanto esca dall’acqua con un cocchio trainato da sette cavalli e, gettando tre sassi nell’acqua, traccia dei segni nel cielo: il mare a questo punto diventa di cristallo e su di esso compaiono immagini di città. In realtà quello della Fata Morgana non è altro che un fenomeno ottico, che si può ammirare spesso nell’isola di Favignana e nello stretto di Messina. Il fenomeno è molto simile a quello dei miraggi nel deserto, e nel passato molti naviganti vennero tratti in inganno andando a naufragare lungo la costa.



Il rapimento di Proserpina
Cerere, sorella di Giove, era la dea delle messi, colei che aveva insegnato agli uomini a coltivare e rendere fertili i campi. Cerere aveva un incantevole figlia di nome Proserpina. Un giorno mentre la fanciulla era intenta a raccogliere dei fiori, si aprì la terra davanti ai suoi piedi e da lì uscì Plutone, dio degli inferi, che afferrò la giovine e la portò nel suo regno per farla sua sposa. La madre, allarmata dalle grida della figlia, accorse immediatamente ma non trovò nessuno, allora iniziò a peregrinare per tutta la Sicilia in cerca della figlia. La leggenda vuole che fu proprio durante questo peregrinare che a Cerere cadde la falce che diede origine alla città di Trapani.
La ricerca però non portò nessun risultato, Cerere era disperata, fino a quando Elios, dio del sole, non gli svelò l’accaduto. La dea, allora, si rivolse al fratello Giove per riavere la figlia ma, il padre di tutti gli dei non volle acconsentire alla richiesta.
Cerere, distrutta dal dolore e dal tradimento del fratello, decise di ritirarsi e di lasciare la cura dei campi. La terra, quindi, iniziò a non produrre più i suoi frutti e cominciarono ad arrivare le carestie, che portarono allo sterminio di intere popolazioni. Giove, preoccupato, tentò di convincere la sorella a ritornare ad occuparsi della terra, Cerere dal canto suo ripeteva che lo avrebbe fatto solo se avesse riavuto indietro la figlia, la quale però aveva ormai perso la verginità, diventando a tutti gli effetti la sposa di Plutone. Giove, allora, non potendo restituire definitivamente la figlia a Cerere, decise che Proserpina sarebbe ritornata ogni anno dalla madre, nel periodo che va dalla stagione primaverile fino all’epoca del raccolto, cioè autunno inoltrato.
La leggenda narra che ogni anno Proserpina risalga dalle viscere della terra portando il soffio primaverile dell’abbondanza, per poi scomparire con l’arrivo dei primi freddi invernali.






LA PADRONA DI TRAPANI:



Particolare il caso di Trapani.
Sino alla seconda guerra mondiale la città aveva due Patroni.
Poi si decise solennemente di affidare il ruolo di Patrono a Sant'Alberto, che viene festeggiato ogni anno il 7 agosto.
Sant'Alberto degli Abati nacque a Trapani nel XIII sec. (Trapani, 1250-1257 - Messina, 7 agosto 1306).

Si distinse per la dedizione alla predicazione mendicante e per la fama dei miracoli. Negli anni 1280 e 1289 fu a Trapani, e più tardi a Messina. Nell'anno 1296 governò la Provincia carmelitana di Sicilia come Provinciale. Celebre il suo amore appassionato per la purezza e l'orazione. Morì a Messina probabilmente nel 1307.

Fu il primo santo ad avere culto nell'Ordine, e pertanto ne fu considerato patrono e protettore o "padre", titolo condiviso con l'altro santo del suo tempo, Angelo di Sicilia.
Nel sec. XVI fu stabilito che ogni chiesa carmelitana avesse un altare a lui dedicato. Furono anche molto devote di questo santo Teresa di Gesù e Maria Maddalena de' Pazzi.

Madonna della SS. Annunziata, calcografia della seconda metà del XIX sec., Palermo, Museo PitréAlla Madonna della Santissima Annunziata rimane il ruolo di Protettrice della città di Trapani.
Di Lei esiste un detto popolare che ne racconta il profondo rapporto di affetto tra la Madonna e la sua gente: Purtari nun si fa di autri genti. Secondo la tradizione popolare siciliana, infatti, la statua della Vergine "non si lascia portare da altre persone se non i marinai". Questo privilegio ha radici antiche e attesta che gli uomini di mare della città di Trapani riscoprono ogni anno, il 16 agosto, giorno dedicato alla Santa Protettrice, il significato originario della loro stessa attività. L'importanza dei festeggiamenti patronali si comprende se si conoscono le vicende leggendarie relative al trasporto della Madonna, invocata dai pescatori come protettrice.

Secondo una leggenda, riportata da G. Pitrè in Feste patronali, si narra che una nave pisana partita dall'isola di Cipro aveva sottratto ai saraceni la statua della Madonna venerata in quel luogo. Durante il viaggio i venti impetuosi costrinsero la nave ad ormeggiare nel porto di Trapani dove i marinai lasciarono la statua dentro una cassa, senza dichiararne il contenuto.
Da lì a pochi giorni tutti quelli che si appoggiavano alla cassa, dallo storpio al cieco, dal muto al sordo, venivano guariti dai propri mali.
Scoperto il contenuto di quella cassa, si decise di costruire una cappella ma il capitano della nave, intenzionato a riportare con sé la statua, decise di farla caricare su di un carro tirato da buoi in modo tale che se questi buoi avessero preso la strada verso la cappella, la Vergine sarebbe rimasta a Trapani, diversamente la nave avrebbe ripreso il mare per Pisa. Una volta che il carro fu lasciato andare, nessuno ebbe più dubbi. In ogni città cambia il modo di solennizzare le feste locali: la processione dedicata alla Madonna della Santissima Annunziata di Trapani è uno dei momenti più solenni nel contesto delle cerimonie religiose in Sicilia.



ERICE:

« Sulla vetta più alta inciela una medievale borgata irta di torri. È il piccolo borgo di Erice, dominato una volta dal più famoso tempio della dea più famosa...Venere,... con la sua cinta fortificata, con le sue strade accuratamente selciate. »

Erice (Monte San Giuliano fino al 1934Èrici o u Munti in sicilianoEryxΈρυξ in greco antico) è un comune italiano di 28.463 abitanti dellaprovincia di Trapani in Sicilia.
Il centro cittadino, di 512 abitanti, è posto sull'omonimo Monte Erice, mentre la maggior parte della popolazione si concentra nell'abitato diCasa Santa, contiguo alla città di Trapani. Il nome di Erice deriva da Eryx Έρυξ, un personaggio mitologico, figlio di Afrodite e di Boote, ucciso daErcole.Cuore del comune è il capoluogo che sorge sull'omonimo "monte". Un tempo era uno dei comuni più estesi della Sicilia, comprendeva infatti territori assai distanti dal capoluogo: ValdericeCustonaciBuseto Palizzolo e San Vito Lo Capo. Diverse le frazioni che completano il territorio, alle falde della montagna madre (Casa SantaPizzolungo, Roccaforte, Rigaletta, Tangi, Ballata, Napola, ecc.) A Erice sono rimasti solo poco più di cinquecento abitanti, che si decuplicano nel periodo estivo.


LE ORIGINI:


Secondo Tucidide, fu fondata dagli esuli troiani, che fuggendo nel Mar Mediterraneo avrebbero trovato il posto ideale per insediarvisi; sempre secondo Tucidide, i Troiani unitisi alla popolazione autoctona avrebbero poi dato vita al popolo degli Elimi. Fu contesa dai Siracusani e Cartaginesi sino alla conquista da parte dei Romani nel 244 a.C.
Virgilio la cita nell'Eneide, con Enea che la tocca due volte: la prima per la morte del padre Anchise, un anno dopo per i giochi in suo onore. Virgilio nel canto V racconta che in un'epoca ancora più remota vi campeggia Ercole stesso nella famosa lotta col gigante Erix o Eryx, precisamente nel luogo dove poi si sfidarono al cesto il giovane e presuntuoso Darete e l'anziano Entello.
In antico, insieme a Segesta, che parrebbe di fondazione coeva, era la città più importante degli Elimi, in particolare era il centro in cui si celebravano i riti religiosi.
Durante la prima guerra punica, il generale cartaginese Amilcare ne dispose la fortificazione, e di qui difese Lilibeo. In seguito trasferì parte degli ericini per la fondazione di Drepanon, l'odierna Trapani.
I Romani vi veneravano la "Venere Erycina", la prima dea della mitologia romana a somiglianza della greca Afrodite, ma Diodoro Siculo narra l'arrivo di Liparo, figlio di Ausonio, alle Isole Eolie (V, 6,7), aggiungendo che i Sicani «abitavano le alte vette dei monti e adoravano Venere Ericina».
Scarse, o quasi nulle, sono le notizie della città e del santuario nel periodo bizantino, restando comunque economicamente attiva.












L'ISOLA DI FAVIGNANA:


Favignana (in siciliano Favignana) è un'isola dell'Italia appartenente all'arcipelago delle isole Egadi, in Sicilia.
Principale isola delle Egadi, si trova a circa 7 km dalla costa occidentale della Sicilia, tra Trapani e Marsala, di fronte alle Isole dello Stagnone, che sono a loro volta di fronte all'aeroporto internazionale di Trapani Birgi.Favignana fa parte della riserva naturale delle isole Egadi istituita nel 1991. L'isola è abbastanza brulla e ospita la tipica macchia mediterraneae la gariga. La vegetazione è quindi costituita da OleastroLentiscoCarruboEuforbia e Sommacco. Vi sono alcuni interessanti endemismiquali il cavolo marino (Brassica macrocarpa), il fiorrancio marittimo (Calendula maritima), la finocchiella di Boccone (Seseli bocconi). Uno studio degli anni sessanta sulla vegetazione delle Egadi riporta a Favignana circa 570 specie.[1] Nell'area est dell'isola vi sono molti giardini detti ipogei, curati e coltivati all'interno delle cave di tufo ormai dismesse.
È una delle poche isole minori siciliane in cui sia presente una popolazione di rospo smeraldino siciliano (Bufo siculus)


LA STORIA:
Favignana presenta alcune tracce preistoriche di insediamenti umani; è menzionata da Tucidide come sede di un insediamento fenicio. Vi si trovano i resti di un cimitero paleocristiano.
Nel 1081 i Normanni vi realizzarono un villaggio e possenti fortificazioni, il forte San Giacomo (attualmente non visibile perché all'interno del carcere in paese di cui è prevista la demolizione non appena completato quello nuovo appena fuori il centro abitato) e quello di Santa Caterina (in cima alla montagna ed in stato di completo abbandono e pericolante, raggiungibile a piedi tramite una via recentemente pavimentata e provvista di illuminazione comunque non funzionante a causa della mancata manutenzione). Nel periodo angioino nacquero le due tonnare.
Nel 1874 l'isola appartenne ai Florio che ne potenziarono le tonnare e vi costruirono una villa in stile liberty. Favignana è famosa per le sue cave di tufo (in realtà è impropriamente detto 'tufo' perché quella di Favignana è una calcarenite e non una roccia di origine vulcanica come è il vero tufo), per le grotte e per l'antica tradizione della pesca del tonno con la tonnara, di derivazione araba.
La tonnara di Favignana non è più in attività, fino al 2007 ogni anno, nel mese di maggio, si svolgeva la mattanza, la pesca dei tonni, che attirava molti turisti ed appassionati. La mattanza è finita a causa del ridotto numero di tonni pescati e della taglia ridotta dei tonni pescati.
Nel 2003 cominciano i lavori di restauro della tonnara, terminati nel 2009. Attualmente il luogo è aperto al pubblico gratuitamente e sono offerte visite guidate da ex operai dello stabilimento. All'interno è possibile trovare testimonianze video legate alla mattanza e alla tonnara, e inoltre filmati storici concessi dall'Istituto Luce. Vi è in più una sala nella quale sono esposti reperti storici ritrovati nel mare delle isole Egadi.



LA LEGGENDA DELLA FORTEZZA DI SANTA CATERINA:

La colonia penale di Favignana è venerata come un santuario della n'drangheta. Da uno dei tanti "codici" della n'drangheta sequestrati a n'ndranghetisti calabresi si legge: Giovanotto, mi sapete dire dove avete ricevuto il vostro primo onore? - All'isola di Favignana!
Molti non sanno che, secondo la leggenda, fu sull'isola di Favignana, o meglio all'interno della fortezza di Santa Caterina che furono fondate le regole che daranno poi vita alla Mafia, alla Camorra e alla N'drangheta.
La leggenda affonda le radici nel XV secolo, quando Osso, Mastrosso e Carcagnosso, tre mitici cavalieri spagnoli appartenuti ad una associazione cavalleresca fondata a Toledo nel 1412 (La Garduna), fuggendo ai ferri spagnoli e a bordo di una barchetta spinta da 5 vele (tanti quanti erano i membri onorati di ciascuna società) e con a bordo 7 marinai (erano infatti 7 le leggi primarie che regolavano la vita degli uomini d'onore e delle loro bande in Campania, Sicilia e Calabria), arrivarono all'isola di Favignana.
Lì, lavorarono per 29 anni all'interno delle "viscere" della fortezza di Santa Caterina, per stabilire le "regole sociali"; alla fine di questo lungo lavoro si divisero. Osso rimase in Sicilia, Mastrosso girovagò per tutta la penisola ma si stabilì a Napoli, Carcagnosso dimorò in Calabria. Diffusero, quindi, le regole sociali di quella che sarebbe divenuta la Mafia in Sicilia, la Camorra in Campania e la n'drangheta o Famiglia Montalbano, in Calabria.
Una leggenda che, probabilmente, è servita a creare un mito, a nobilitare le ascendenze, a costituire una sorta di albero genealogico con tanto di antenati.
Il giuramento di fedeltà del n'dranghetista, infatti, prevede la recita della seguente formula che tradotta in lingua italiana, recita:

"Giuro su quest'arma e di fronte a questi nuovi fratelli di Santa di rinnegare la società di sgarro e qualsiasi altra organizzazione, associazione e gruppo e di fare parte della Santa Corona e di dividere con questi nuovi fratelli di Santa la vita e la morte nel nome dei cavalieri Osso, Mastrosso e Carcagnosso. E se io dovessi tradire, dovrei trovare nello stesso momento dell'infamia, la morte".
Ma anche il giuramento dell'affiliato alla n'drangheta rimanda alle presunte nobili ascendenze dei cavalieri:

"Vi impongo, a nome degli anziani antenati nobili conti di Russia e cavalieri di Spagna che hanno patito ventinove anni di ferri e di catene, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, di consegnare, se ne avete, tutte le armature bianche e al pari tutte le armature nere. Se le avete e non le consegnerete subito, quando verranno trovate, con queste stesse armature sarete praticati"
E pur con alcune varianti, a seconda della zona della Calabria ove avviene il reclutamento del picciotto o "battesimo" si fa sempre riferimento ai tre mitici cavalieri. Durante il battesimo, che viene celebrato in un posto isolato, preferibilmente una caverna in montagna - alla presenza del numero minimo di 5 picciotti, il celebrante che è uno n'dranghetista anziano, pronuncerà le prescritte frasi:

"Battezzo questo locale santo, sacro e inviolabile nella stessa maniera nella quale lo hanno battezzato i nostri avi dai quali discendiamo: i cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso. E se un tempo questo luogo era un posto comune, da questo momento diventerà un luogo santo, sacro e inviolabile. Se qualcuno non lo riconoscerà come tale ne pagherà le conseguenze con cinque zaccagnate (coltellate n.d.a.) nella spina dorsale, come è scritto sulla regola sociale".
Favignana e Santa Caterina, sono citate anche nella canzone "N'drangheta, Camurra e Mafia" (album Il Canto della Malavita, cantata da Mimmo Siclari - Amiata Records 2003 - Firenze):

'Nta na notti di un tempo che fu/ Tri cavalieri ddà Spagna se partiru/ Dall'Abbruzzi a Sicilia passaru/ e ppoi ccà in Calabria se firmaru/ Ventun anni lavuraru sutta terra/ Pè fundari li regoli sociali/ Leggi d'onori e di guerra/ Leggi maggiori, minori e criminali/ E sti regoli di sangue e d'omertà/ Da padre a figghiu si li tramandaru/ Chisti su i leggi ddà società/ Leggi cu signu 'nta storia lassaru/

N'dranghita, Camurra e Mafia/ E' Società organizzata/
N'dranghita, Camurra e Mafia/ Sicilia, Napoli, Calabria onorata/

Na matina mmenzu di lu mari/ Na barchicedda vitti navigari/ Ccù cinqu veli e setti marinari/ Uno di chisti mi vosi domandari/ Giovanotto diciti chi circati/ Onori e sangu eu ci rispundia/ Supra a sta barca si vui inchianati/ Onori e sangu truvamu pè la via/ E me purtaru ammenzu di lu mari/ N'ta n'isoletta i nomu Favignana/ Oh genti tutti chi stati a scutari/ Chista è na terra vicina e assai luntana/

N'dranghita, Camurra e Mafia/ Leggi d'onori leggi d'omertà/
N'dranghita, Camurra e Mafia/ Pe cù sgarra nessuna pietà/

Ddà c'era nu casteddu ccù tri stanzi/ Undi la prima puzzava infamità/ Tri gucci di sangu 'nta secunna 'nci truvai/ Mentri 'nta terza nu corpu di società/ Degnu e meritevoli fui arricanusciutu/ Sutta l'arberu da scienza abbattiatu / Onoratu circulu a tutti vi salutu/ Fino a la morti a vui su vinculatu/ Io fazzu l'omu pi sangu e onori/ E pi scacciari l'infami e traditori/ Mentre e perdunu nuddu ha pietà/ Chistu m'imponi 'stu corpu e società/

N'dranghita, Camurra e Mafia/ E' Società organizzata/
N'dranghita, Camurra e Mafia/ Leggi d'onori leggi d'omertà/

Traduzione

In una notte di un tempo che fu/ Tra cavalieri partirono dalla Spagna/ Dagli Abruzzi attraversarono la Sicilia/ E poi qui in Calabria si fermarono/ Ventun anni lavorarono sotto terra/ per fondare le regole sociali/ Leggi d'onore di sangue e di guerra, leggi maggiori, minori e criminali/ e queste regole di sangue e di omertà/ da padre a figlio si tramandarono/ queste sono le leggi della Società/ leggi che il segno nella storia lasciarono/ N'drangheta, Camorra e Mafia/ legge d'onore, legge d'omertà/ Sicilia, Napoli, Calabria onorata/

Una mattina in mezzo al mare/ una barchetta vidi navigare/ con cinque vele e sette marinai/ uno di questi mi volle chiedere/ giovanotto dite che cercate/ onore e sangue io gli risposi/ se salirete su questa barca/ onore e sangue troveremo per la via/ e mi portarono in alto mare/ su un'isoletta di nome Favignana/Oh gente tutta che state ad ascoltare/ quella è una terra vicina e assai lontana/ N'drangheta, Camorra e Mafia/ legge d'onore, legge d'omertà/ N'drangheta, Camorra e Mafia/ per chi sgarra nessuna pietà/

Lì c'era un castello con tre stanze/ dove la prima puzzava d'infamia/ tre gocce di sangue trovai nella seconda/ mentre nella terza un corpo di società/ degno e meritevole fui riconosciuto/ battezzato sotto l'albero della scienza/ onorato circolo a tutti vi saluto/ fino alla morte a voi son vincolato/ io faccio l'uomo per sangue e onore/ e per scacciare gli infami e traditori/ per le grida di perdono nessuna pietà/ è quello che impone questo corpo di società/ N'drangheta, Camorra e Mafia/ è società organizzata/ N'drangheta, Camorra e Mafia/ legge d'onore, legge d'omertà/.

LA LEGGENDA :

Tutto questo per raccontare una leggenda che tanto leggenda pare non sia, ed è quella della nascita delle tre più pericolose organizzazioni mafiose del nostro Paese, mafia, ‘ndragheta e camorra, su quello che all’epoca era un isolotto, nel mare delle Egadi a Favignana. Si parla di riti, ma anche di realtà criminale, forte, marcata, negli accenti, nelle violenze e oggi nelle infiltrazioni. Osso, Mastrosso e Carcagnosso i “fondatori”, che in comune con i mafiosi di oggi hanno anche il verbo e il comportamento che come i moderni mafiosi insistono nel ritrovare tra le pagine delle sacre scritture, della bibbia, mafiosi che chiudono lettere in cui ordinano vendette sanguinose salutandosi in nome di Madonne e Santi.
Mafiosi come il capo mafia di Mazara, Andrea Manciaracina, ma non solo lui, avrebbero usato la bibbia, sottolineandone alcuni passaggi per fare passare all’esterno alcuni messaggi. Mafiosi come il latitante di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro, che nel giorno dell’anniversario della morte del padre, il “campiere” capo mafia, il “padrino” Francesco Messina Denaro, fece pubblicare un necrologio citando versetti del vangelo di San Matteo.
Domani 5 agosto il libro Osso, Mastrosso e Carcagnosso verrà presentato alla Tonnara Florio di Favignana, l’impianto, dicono gli autori, è quello di una epopea cavalleresca, credenze religiose, riti massonici. Leggenda? Mica tanto. Nicola Calipari l’uomo dei servizi morto in Iraq salvando dal sequestro la giornalista Giuliana Sgrena, in Australia addirittura andò a trovare uno dei codici della ndragheta. Osso, Matrosso e Carcagnosso erano tre cavalieri di Toledo che nel 1400 ripararono a Favignana dopo che col sangue avevano lavato l’onore violato della sorella, a Favignana restarono in cella per 30 anni, i segni della dominazione spagnola restano ancora ben visibili in una parte dell’isola dove è stato trovato, grazie anche alle ricerche di un sacerdote, un trono, e anche delle stanze, alcune adibite a celle e a luoghi di tortura. Da quella detenzione la leggenda racconta che i tre uscirono con saperi diversi ma con un comune denominatore, Osso restò in Sicilia spargendo il sapere mafioso di Cosa Nostra, Carcagnosso, andò a Napoli fondando lì la camorra, Mastrosso, si fermò in Calabria a fondare la ‘ndragheta, forse quella riuscita meglio perché per secoli è rimasta la meno vista, la più sommersa, delle organizzazioni criminali.


IL CASTELLO DI SANTA CATERINA:
Secondo l’interpretazione divulgata dalla storiografia locale si vorrebbe che il castello o forte di Santa Caterina sorga nel luogo dove preesisteva una torre di avvistamento, costruita dai Saraceni durante la loro dominazione (a. 810), contemporaneamente a quella eretta nel sito in cui fu costruito il castello di S. Leonardo (dove è collocato l’attuale Palazzo Florio), ed ad un’altra, della quale non resta quasi traccia, denominata la Torretta. Queste torri avrebbero dovuto costituire il sistema difensivo saraceno, e da esse potrebbe avere avuto origine lo stemma del comune di Favignana, cioè tre torri sulle quali poggia un uccello rapace, dove le tre torri rappresentano la difesa dagli attacchi dei nemici, simboleggiati dall’uccello rapace.
Secondo la storiografia locale, Ruggero I d’Altavilla trasformò le prime due torri nelle fortezze di Santa Caterina e San Leonardo, non apportando cambiamenti alla terza torre, ma facendo costruire il forte di S. Giacomo (1074-1101). Purtroppo attualmente è solo intuibile la traccia archeologica dell’impronta saracena o normanna nelle fortezze.
Successivamente il castello di S. Caterina fu dato in concessione a Palmerio Abate, che i regnanti svevi avevano nominato governatore del castello di Favignana. Dopo gli Svevi, sulla scena siciliana si imposero gli Angioini, che con le loro pressioni fiscali indussero ben presto i Siciliani alla rivolta. Secondo la leggenda uno dei cospiratori contro gli Angioni fu proprio Palmerio Abate e, quando scoppiò la rivolta in tutta la Sicilia (31 marzo 1282), la popolazione di Favignana, sotto la guida dell’Abate, sterminò il presidio francese. E’ quindi probabile che già dall’età angioina il castello costituisse una sorta di possedimento ereditario della famiglia trapanese degli Abate. Infatti, scacciati gli Angioini, il re Pietro d’Aragona nominò signori di Favignana l Palmerio Abate e i suoi eredi.
Sotto la dominazione aragonese, il signore di Favignana Andrea Riccio fece ricostruire, sul finire del 1400, i due castelli di S. Caterina e di S. Giacomo, pressappoco nella forma attuale, e munì di fortificazioni l’isola.
Il castello di S. Caterina fu eretto in pietra calcarea locale a forma rettangolare con sporgenze simmetriche ai quattro angoli. Il piano terra era infossato nella roccia e fu qui che, a partire dal XVII secolo, languirono i prigionieri politici. Il primo piano era costituito da locali probabilmente di alloggio per la guarnigione e sovrastato dalla terrazza di avvistamento. Un piccolo fossato correva lungo la facciata e l’ingresso era possibile attraverso un ponte levatoio. La luce all’interno del castello penetrava attraverso un gran numero di finestre ogivali, feritoie, spiragli e buche.
Sull’estremità dello stipite destro della porta d’ingresso del castello era collocato uno stemma che certamente si riferiva alla casata aragonese; sotto lo stemma vi era un’iscrizione in spagnolo, che certificava che il castello venne rifortificato nel 1616. Un’ altra iscrizione si trova nel muro rientrante dell’angolo sinistro, di fronte alla scala, che immette nel corridoio pensile d’ingresso al castello. Non è di facile interpretazione a causa dell’usura, ma si può intravedere il nome della città di Catania e la data 1655, che rappresenta una notizia rilevante poiché indica che in quel anno il castello fu rimesso in efficienza.
Nel piano superiore del castello vi erano una serie di stanze a volta basse e ormai in macerie che dovevano appartenere agli ufficiali e ai soldati. Vi era anche una cappella intitolata a S. Caterina dove il prete officiava la messa per i detenuti.
Si può quindi presumere che il nome di S. Caterina derivi dalla chiesetta o cappella di cui i Normanni munirono il castello omonimo.
Durante gli anni del dominio borbonico (1734-1848) sulle Due Sicilie, non mancarono cospirazioni contro la dinastia dei regnanti considerati tiranni. I Borboni attuarono una politica di repressione estrema contro i cospiratori. Circa 32000 persone patirono il carcere e molte di queste furono condannate alla detenzione nel forte di S. Caterina. Il forte venne in parte demolito e devastato nel 1860 dai rivoltosi, che portarono via dal castello perfino le inferriate, e devastarono anche la cappella.

Il Castello di Santa Caterina Oggi

Favignana - Veduta dal Castello di Santa CaterinaOggi è solo intuibile la traccia archeologica dell’impronta saracena o normanna nel castello e nelle fortezze-castello delle Egadi. Il ponte levatoio del castello di S. Caterina oggi è sostituito da un corridoio. Lo stemma riferibile alla casata aragonese è ancora in sito, ma ormai quasi illeggibile; sotto lo stemma era posta una piccola lapide con un’iscrizione in spagnolo non più presente. Fortunatamente un’altra iscrizione, già citata, corrosa dal tempo e sita nel muro rientrante dell’angolo sinistro, di fronte alla scala che immette nel corridoio pensile d’ingresso al castello, è ancora al suo posto e con essa il tempo è stato più clemente.
Attualmente gli ambienti delle segrete sono stati occlusi e, di conseguenza, anche i messaggi dei detenuti non sono più visibili. Dopo la Seconda Guerra mondiale, il castello di S. Caterina fu requisito dalla marina militare e, sul finire degli anni ’50, fu affidato ad un custode assunto dalla stessa marina militare. Oggi il castello di S. Caterina presenta in maniera molto evidente i segni del tempo e soprattutto dell’abbandono in cui si trova ormai da parecchi anni. Ma la vista che si può ammirare dalla parte superiore del castello è meravigliosa. Si può arrivare al castello grazie alla strada che percorre gran parte del colle di S: Caterina con vari mezzi (auto, scooter,biciclette e a piedi); la strada percorribile arriva a circa metà strada, dopo di che si giunge al castello a piedi percorrendo un sentiero a gradoni.

L'ALTRA STORIA:
Favignana è la sorella maggiore delle Egadi (19 km2). A ragione Salvatore Fiume, in un famoso manifesto degli anni '70, la rappresentò come una grande farfalla. Essa, infatti, distende il suo corpo allungato su un piatto tavolato calcareo, dominato al centro da una zona montagnosa che raggiunge con Monte Santa Caterina la massima altezza (314 m.), e dispiega le sue ali ad est e ad ovest su due zone pianeggianti denominate rispettivamente il Bosco e La Piana.

Il centro vitale dell'Isola è situato nella Piana. Le ricerche archeologiche hanno dimostrato che uomini preistorici hanno abitato Favignana. Le molte grotte presenti sull'Isola costituivano per loro una casa comoda e sicura e sulla nuda roccia restano incisi i segni delle loro avventure.

I primi ad interessarsi a Favignana furono i Cartaginesi. A causa loro, gli abitanti dell'Isola assistettero, attoniti ed impotenti, alla cruenta battaglia delle Egadi, nel 241 a.C., che concluse la prima guerra punica. Cala Rossa porta ancora nel nome il ricordo di quel terribile scontro. La leggenda vuole, infatti, che sia stata chiamata così a causa del copiosissimo sangue versato dai contendenti nel corso della battaglia.

La fortuna e la prosperità dell'Isola nei secoli non furono dovute a giacimenti ed altre ricchezze ma ad un pesce: il tonno. Tutti i dominatori dell'Isola, Romani Arabi Svevi Normanni Angioini, furono consapevoli di questo tesoro che il mare di Favignana celava e seppero sfruttarlo e valorizzarlo migliorando e sviluppando sempre più le tecniche di pesca.

A queste grandi civiltà e dinastie seguirono potenti famiglie che possedettero l'Isola per secoli fino a quando arrivarono i Florio, ricchi benefattori, che, nel 1874, acquistarono tutte le Egadi. Grazie ai Florio la pesca del tonno e la tonnara divennero una vera e propria istituzione. La mattanza (così è chiamata la pesca del tonno) fa parte del patrimonio genetico degli isolani e delle loro radicate tradizioni. Per loro il tonno è vita e ricchezza. Tant'è vero che per dire a qualcuno che ha fatto un buon affare si usa dire pigghiasti lu tunnu (hai pescato il tonno).




LO STABILIMENTO FLORIO:

Anche se oggi una parte del nostro Paese tende a dimenticare (o, peggio, non sa),  nel 19° secolo il Mezzogiorno d’Italia conobbe interessanti iniziative industriali, alcune delle quali di assoluto livello continentale.
Un esempio è offerto dall'ex Stabilimento Florio di Favignana (Isole Egadi) ora diventato il fulcro di una interessante offerta culturale, dopo l’attento restauro effettuato nel decennio scorso dall’architetto Stefano Biondo grazie a contributi europei.
Fu il più importante e moderno stabilimento industriale del Mezzogiorno per la lavorazione del tonno, costruito a metà dell’Ottocento per iniziativa del senatore Ignazio Florio, appartenente alla più prestigiosa dinastia di borghesi imprenditori siciliani nei settori commerciale, industriale e finanziario lungo tutto il secolo decimo nono.
L’acquisto delle Egadi da parte dei Florio, avvenuto nel 1874, rappresentò un traguardo nella strategia della famiglia che fino a quel momento, nel campo della pesca, si era limitata alla semplice conduzione in affitto delle tonnare delle Isole dal 1841 al 1859.
Il primo nucleo dello Stabilimento - il cosiddetto edificio “Torino” - fu costruito dal genovese Giulio Drago, che nel 1860 aveva preso in esercizio i vecchi impianti.
Con l’arrivo di Ignazio Florio, nuovo proprietario delle Egadi, a quel corpo di fabbrica si aggiunsero, tra il 1881 ed il 1889, ciò che si vede ancor’oggi, ossia i grandiosi magazzini, le sale di confezionamento del pescato e le strutture di servizio per tutti gli addetti, oltre ad una vasta area aperta (denominata “camposanto”) destinata all’essicazione delle teste dei tonni per ricavarne olio per uso industriale.
In questa nuova e moderna realtà produttiva, somigliante alle cittadelle operaie continentali, si riuscì a realizzare un ciclo lavorativo che coinvolgeva alcune centinaia di addetti: «Buttati i pesci dalla barca nell’acqua della spiaggia, vengono immediatamente uncinati in un occhio, legati con corda alla coda, tirati nello sbarcatoio e disposti in tre ordini simmetrici. Appena formata la prima fila, sei operai con un’accetta fanno in un attimo quattro tagli: uno per tagliare la testa, la quale vien subito portata via, due trasversali ed uno longitudinale per estrarre le interiora, le quali da un altro operaio, che accorre istantaneamente con un mastello, vengono portate in apposito locale. Appena sventrato il pesce, vien posto sulle robuste spalle di un uomo, il quale lo trasporta in magazzini dal tetto basso dal quale pendono innumerevoli corde, alle quali i tonni vengono appiccati per la coda, perché ne possa colare il sangue per parecchie ore … Una serie dei magazzini è destinata al riempimento delle scatole e alla conservazione dei prodotti. L’intero stabilimento è illuminato a gas, la cui forza motrice viene utilizzata per estrarre l’acqua da un pozzo e per altri usi» (da La Settimana commerciale ed industriale del 15 maggio 1892).
Il tonno tagliato a pezzi veniva cotto in 24 grandi caldaie e, successivamente, posto ad asciugare in ceste di ferro collocate in magazzini ben ventilati. In un altro ampio locale si effettuava la lavorazione delle latte, con l’utilizzo di macchine e saldatrici.
All’Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-1892, Casa Florio presentò, nel proprio padiglione dedicato alla pesca del tonno, presentò tarantello e ventresca nelle innovative scatolette di latta con apertura a chiave.
Lo Stabilimento di Favignana sopravvisse al fallimento economico della famiglia Florio passando, a fine degli anni Trenta, prima del novero delle aziende di proprietà dell’Iri, poi nelle mani degli industriali genovesi Parodi. Con quest’ultimi lo stabilimento proseguì a lavorare proficuamente continuando ad essere una delle principali fonti economiche dell’isola.
Questo fino agli anni Settanta quando l’attività venne conclusa perché non più competitiva nel mercato le cui dinamiche erano cambiate nel corso dei decenni. Acquisito al patrimonio della Regione Siciliana negli anni ’90, lo Stabilimento rimase in stato di abbandono fino al restauro degli anni Duemila.







SAN VITO LO CAPO :








la storia:


San Vito Lo Capo (Santu Vitu in siciliano) è un comune italiano di 4.180 abitanti della provincia di Trapani in Sicilia.
Il paese è uno dei più famosi luoghi di soggiorno estivo della Sicilia, per la bellezza della sua spiaggia che nel 2011 è stata eletta la migliore spiaggia italiana e l'ottava in Europa. Sul suo territorio è campresa la parte più occidentale della Riserva dello Zingaro.
Si trova sulla costa occidentale della Sicilia, sul promontorio di Capo San Vito, con a occidente il Golfo di Macari e a oriente la Riserva dello Zingaro e il Golfo di Castellammare.
Nasce alla fine del settecento, nel territorio demaniale ericino, alle falde di Monte Monaco, nella bianchissima baia posta tra Capo San Vito e Punta Solanto. Tracce dell'epoca paleoliticamesolitica e neolitica si trovano nelle numerose cavità naturali, un tempo abitazioni, che si affacciano sul mare. Resta avvolta dal mistero l'esistenza di un'antica borgata, Conturrana, una rupe immensa a 500 passi dalla riva staccatasi dalla montagna. Qui, probabilmente intorno alla fine del IV secolo a.C., esistette un piccolo centro abitato.
Nucleo generatore di San Vito Lo Capo è l'attuale Santuario, antica fortezza che nell'arco dei secoli ha subìto numerosi interventi edilizi. La prima costruzione, realizzata intorno al trecento, fu una piccola cappella dedicata a San Vito martire, patrono del borgo marinaro. Secondo una tradizione accettata e riportata da tutti gli agiografi e cultori di storia siciliana, il giovane Vito (di origini presumibilmente della Lucania), per sfuggire ai rigori della decima persecuzione ordinata da Diocleziano (303-304), e alle ire del padre Ila e del prefetto Valeriano, assieme al suo maestro Modesto e alla nutrice Crescenzia, scappato via mare da Mazara, col favore dei venti approdò sulla costa del feudo della Punta, in territorio di Monte Erice, dagli antichi chiamato Capo Egitarso. Qui cominciò a predicare la parola di Dio tra la gente del luogo, in una borgata poco distante dalla spiaggia, chiamata Conturrana.
In nome di Dio guariva gli infermi, quanti fossero colpiti da rabbia o morsi da animali, o compromessi nella salute per un improvviso spavento, scacciava gli spiriti immondi. Ma, a dispetto dei numerosi miracoli operati, la sua opera fu coronata da scarso successo, e si concluse col castigo inflitto da Dio a Conturrana. La credenza popolare ritiene che il giovanetto San Vito, martire al tempo di Diocleziano, sia stato in questo paese non benevolmente accolto, allorquando si era colà rifugiato, accompagnato dai precettori Modesto e Crescenzia. L'inesorabile ira divina si era abbattuta sul paese, seppellendolo completamente sotto una frana, non appena i tre profughi avevano lasciato il centro abitato, dirigendosi verso il mare. Sempre secondo tradizione Santa Crescenzia, voltandosi a guardare la città che crollava, divenne pietra nello stesso punto dove adesso sorge la cappella, alla quale ancora oggi gli abitanti del luogo attribuiscono poteri magici. Per San Vito, invece, seguì una breve dimora nell'Egitarso e, dopo un viaggio attraverso la Sicilia e la Basilicata, il martirio, il 15 giugno del 299.
Col tempo crebbe la fama della chiesa e dei "miracoli" attribuiti al martire Vito e a Santa Crescenzia e così, per accogliere i numerosi fedeli che arrivavano in pellegrinaggio – e, soprattutto, per difenderli da ladri e banditi – l'originaria costruzione andò trasformandosi in una fortezza-alloggio. Tale realizzazione risale alla fine del quattrocento. Fin dall'inizio, il Santuario fu fatto centro di una grande devozione, e la fama dei miracoli che il Santo qui operava varcava anche i confini della Sicilia, richiamando in ogni stagione numerosissimi pellegrini. Anche gli stessi corsari, nemici dichiarati della fede cattolica, avevano rispetto per il Santo e per il suo tempio.

Alba sul mare a San Vito Lo Capo.
Nel frattempo aumentavano i pericoli di incursioni di pirati barbareschi, così, lungo le coste dell'isola, cominciarono ad essere edificate numerose torri di avvistamento. Le torri principali erano tre, due sono ancora visibili e sono torre Scieri e torre Isolidda. La terza invece, torre Roccazzo, ubicata sul piano Soprano che si estende ad ovest del paese di San Vito (il luogo fu appositamente scelto perché l'unico atto a garantire la corrispondenza con le altre due torri), venne demolita per far posto al semaforo militare nel 1935.
All'inizio del settecento iniziarono a comparire le prime case tutto intorno al Santuario, in particolare i possidenti Gaspare Vultaggio e Giuseppe Vultaggio, con i figli Gaspare ed Antonino, viventi nella prima metà del 1700, sono indicati tra i primi abitanti. Alla fine dello stesso secolo, attorno alla chiesa esisteva già un piccolo nucleo di abitazioni. Nasceva così San Vito Lo Capo. Nell'arco dei secoli, la cittadina ha accolto esploratori, viaggiatori e persino commissari governativi che, mossi da curiosità, interessi culturali o militari, misero a punto meticolose ed interessanti descrizioni sulla geografia dei luoghi visitati.

GLI EVENTI:


Dal 1998 la cittadina ospita la prima settimana di giugno il "Cous Cous Fest", rassegna internazionale di cultura ed enogastronomia del Mediterraneo. Una gara gastronomica internazionale di cuscus che impegna chef provenienti da 8 paesi: Costa d'AvorioFranciaIsraeleItaliaMaroccoPalestinaSenegal eTunisia, che si affrontano proponendo il cuscus cucinato secondo la propria tradizione gastronomica.
La rassegna Libri, autori e buganvillee[4] si svolge nel periodo luglio - settembre di ogni anno a cura di Giacomo Pilati. Una serie di incontri con l'autore nella via Venza, il salotto all'aperto del paese. Scrittori italiani presentano la loro ultima opera letteraria alla presenza del pubblico.
In Maggio, dopo un tour di tutta la Sicilia, si conclude il Festival internazionale degli aquiloni con una tappa finale a San Vito Lo Capo. Aquilonisti di fama internazionale si scontrano in sessioni di aquilonismo acrobatico a suon di musica. Contestualmente, durante l'evento vengono anche eletti Mr e Miss aquilone.
Infine, da segnalare, "Tempu ri capuna" un appuntamento autunnale per riscoprire storie e leggende legate alla pesca e al mare con rassegna interamente dedicata alla tradizione culinaria del pesce azzurro con incontri, convegni scientifici e spettacoli.

Nel mese di luglio si celebra il Summer Music Festival.


FESTIVAL DEL CUS CUS:

A fine Settembre a San Vito Lo Capo si svolge  il CUS CUS FEST.. un momento d'incontro  e confronto di popoli, cultura e tradizioni. 
in tutto il paese per quattro giorni si può gustare il cus cus cucinato  in diversi modi, e bere vino rosso e bianco della zona trapanese. il cus cus di pesce è il piatto che domina la rassegna  gastronomica, e viene preparato impiegando pesce fresco ( scrofani,boghe,saraghi,cernie,gronghi,ombrine).All'evento si accompagna  anche il Cus Cus Live Music con concerti di musica etnica.

LE FRAZIONI:


  • Castelluzzo si trova a circa 9 km dal capoluogo comunale e a 2 km dalla costa e conta circa 1000 abitanti La frazione negli ultimi anni ha beneficiato del flusso turistico che ha coinvolto la bellissima cittadina del capoluogo, sono presenti numerosi piccole attivia' a carattere ricettivo per lo più b&b e qualche albergo.Meta per un turismo passionale e naturalisico, preferita da rocciatori e climbers, la bellissima falesia difatti negli ultimi anni ha avuto parecchi estimatori e frequentatori. Lungo la costa inviolata dalle acque cristalline sono presenti numerose baie e calette balneabili abbastanza tranquille. Valle degli ulivi è denominata la distesa su cui si estende il paese, in essa sono presenti piante centenarie che caratterizzano in maniera positiva l'olio prodotto, particolarmente fruttato e deciso.
  • Macari (talvolta scritto Makari) è costituita invece da un borgo marinaro, con una antica tonnara, distante circa 4 km dal capoluogo comunale e conta circa 450 abitanti, Tramonti mozzafiato e mare incontaminato caratterizzano la frazione.





LA RISERVA DELLO ZINGARO:

La Riserva naturale orientata dello Zingaro è una riserva gestita dall'Azienda Regionale Foreste Demaniali della regione siciliana,
La costa dello Zingaro è uno dei pochissimi tratti di costa della Sicilia non contaminata dalla presenza di una strada litoranea.
Nel 1976 erano già iniziati i lavori per la costruzione della litoranea Scopello-San Vito Lo Capo, ma in seguito ad una serie di iniziative del mondo ambientalista, culminate in una partecipatissima marcia di protesta che ebbe luogo il 18 maggio 1980, l'Azienda Regionale Foreste Demaniali della Regione Siciliana si impegnò ad espropriare l'area dello Zingaro riconosciuta di grande interesse ambientale.
Con la legge regionale 98/1981, venne ufficialmente istituita la riserva, la prima riserva naturale della Sicilia, affidata in gestione all'Azienda Regionale Foreste Demaniali

LA FLORA:

La riserva ospita circa 670 taxa infragenerici vegetali, alcuni dei quali endemici e rari. Di questi 502 sono dicotiledoni, 153 monocotiledoni 3 gimnosperme e 10 pteridofite. Di notevole interesse la flora lichenica che annovera per la riserva 130 specie mentre per i muschi sono note 35 specie. Infine sono stati rilevati nel territorio della riserva anche 27 specie di funghi (macromiceti) di cui la famiglia più rappresentativa è quella delle Tricholomataceae. Le speciefanerogamiche endemiche costituiscono il 6,3% rispetto al totale delle specie della riserva e l'1,6% rispetto alla flora della Regione.
Sono rappresentati differenti ecosistemi mediterranei, parzialmente modificati da residui di attività agricole.
Il paesaggio originario era costituito in massima parte da foresta mediterranea sempreverde (foresta xerofila) le cui tracce sono tuttora rappresentate da zone di lecceta, dove trovano ospitalità piccole felciciclamini, cespugli di pungitopo (Ilex aquifolium), e, al limite ovest della riserva, anche da frammenti disughereta, testimonianza di quella formazione forestale a sughera oramai quasi del tutto scomparsa nel resto della Sicilia occidentale.
L'aspetto attualmente più peculiare della riserva è tuttavia la gariga a palma nana, che caratterizza ampie zone del paesaggio costiero e che in contrada Zingaro, dove si trovano esemplari di Chamaerops humilis che raggiungono i 2–3 m di altezza, assume rilevanza di macchia.
Il paesaggio predominante nelle zone costiere è quello della macchia bassa caratterizzata dallo sparzio villoso (Calycotome villosa), la ginestra odorosa (Spartium junceum), il timo selvatico (Thymus vulgaris), l'Erica multiflora, l'olivastro (Olea europea var.sylvestris), l'euforbia arborea (Euphorbia dendroides) e l'euforbia di Bivona (Euphorbia bivonae). Sono presenti inoltre l'alloro (Laurus nobilis), la malva (Malva sylvestris), il cappero (Capparis spinosa), il finocchio selvatico (Foeniculum vulgare). Tra le rocce affioranti si sviluppano il ranuncolo (Ranunculus rupestris), l'issopo (Hyssopus officinalis) e l'endemicoAllium lehmannii. Tra le specie introdotte per la coltivazione si annoverano infine il mandorlo (Prunus dulcis), il frassino da manna (Fraxinus ornus), il carrubo (Ceratonia siliqua) e la vite (Vitis vinifera).
La prateria mediterranea ad ampelodesma, costituisce l'aspetto dominante del paesaggio vegetale della parte alta della riserva; è rappresentata principalmente dalla disa (Ampelodesmos mauritanicus) e dal barboncino mediterraneo (Hyparrhenia hirta); accoglie inoltre specie endemiche quali il timo spinosetto (Thymus spinulosus), il giaggiolo siciliano (Iris pseudopumila), lo zafferanetto di Linares (Romulea linaresii), la speronella (Delphinium emarginatum) e la Silene sicula, nonché specie non comuni quali la esoterica mandragola autunnale (Mandragora autumnalis).
Sono state descritte oltre 40 specie endemiche, tra cui merita una segnalazione particolare il rarissimo limonio di Todaro (Limonium todaroanum) rinvenibile a 750 m di altezza sulle rupi di Monte Passo del Lupo, esclusivo dello Zingaro. Sono inoltre rinvenibili Limonium flagellareHelichrysum rupestre var.rupestreDianthus rupicolaCentaurea ucriaeBrassica bivonianaHelichrysum pendulumSeseli bocconiBrassica drepanensisHieracium cophanense,Minuartia verna subsp. grandifloraLithodora rosmarinifoliaConvolvulus cneorum.
Si possono incontrare infine oltre 25 specie di orchidee selvatiche tra cui l'orchidea a mezzaluna (Ophrys lunulata), endemica della Sicilia, e le sub-endemiche.

LA FAUNA:

Nella riserva nidificano ben 39 specie di uccelli tra cui il falco pellegrino (Falco peregrinus), una delle ultime dieci coppie presenti in Sicilia dell'aquila del Bonelli (Hieraaetus fasciatus), la poiana (Buteo buteo) e il gheppio (Falco tinnunculus); incerta è invece la nidificazione del nibbio reale (Milvus milvus). Durante il periodo delle migrazioni sono stati avvistati anche esemplari di aquila reale (Aquila chrysaetos) e di falco pecchiaiolo (Pernis apivorus). Altri uccelli presenti sono il corvo imperiale (Corvus corax), lo zigolo nero (Emberiza cirlus), il passero solitario (Monticola solitarius), la coturnice (Alectoris graeca), il gabbiano (Chroicocephalus ridibundus), il piccione selvatico (Columba livia), il rondone comune (Apus apus), il rondone pallido (Apus pallidus), la cornacchia grigia (Corvus corone cornix), la gazza (Pica pica), il cardellino (Carduelis carduelis) e l'usignolo (Luscinia megarhynchos). Fra gli uccelli notturni sono presenti la civetta (Athene noctua) e l'allocco (Strix aluco).
Tra i mammiferi sono molto diffusi il coniglio (Oryctolagus cuniculus) e la volpe (Vulpes vulpes). Sono presenti anche la donnola (Mustela nivalis), il riccio(Erinaceus europaeus) e l'istrice (Hystrix cristata); tra i roditori, l'arvicola del Savi (Microtus savii) ed il topo quercino (Eliomys quercinus). Nelle numerose grotte presenti nella Riserva albergano otto differenti specie di pipistrelli tra cui il raro orecchione bruno (Plecotus auritus), il ferro di cavallo (Rhinolophus ferrumequinum), il miniottero (Miniopterus schreibersii) e il pipistrello albolimbato (Pipistrellus kuhlii). In passato era inoltre presente anche la foca monaca(Monachus monachus), avvistata per l'ultima volta nelle grotte marine dello Zingaro nel 1972.
Tra i rettili sono presenti la vipera (Vipera aspis), il biacco (Coluber viridiflavus), il gongilo (Chalcides ocellatus), il geco (Tarentola mauritanica), il ramarro(Lacerta bilineata) e due specie di lucertola, la Podarcis sicula e la meno comune Podarcis wagleriana.
In un'area della riserva ricca di pozze d'acqua (abbeveratoio di contrada Acci) è possibile incontrare l'endemico discoglosso dipinto (Discoglossus pictus), nonché uno degli artropodi più rari del nostro paese, il granchio di acqua dolce (Potamon fluviatile).
Sono individuabili numerose specie di insetti tra cui l'ape legnaiola (Xylocopa violacea), ape solitaria che deposita le sue larve in gallerie scavate nei tronchi d'albero morti, la bella Vanessa atalanta, l’unica farfalla che sverna in questi luoghi anche allo stato adulto, il panfago (Pamphagus marmoratus), una grossa cavalletta incapace di volare.
Un cenno particolare, con riferimento alla fauna marina costiera, merita infine la presenza nella riserva di ampie zone di trottoir a vermeti, un'importante biostruttura tipica del Mar Mediterraneo, per molti versi simile alle barriere coralline. La sua crescita è legata ad un processo di cementificazione di gusci di due specie di molluschi gasteropodi della famiglia dei Vermetidi: il Dendropoma petraeum e il Vermetus triquetrus. L'importanza di questa biostruttura è legata alla sua capacità di modificare l’aspetto e le caratteristiche ecologiche delle coste rocciose, ampliando lo spazio a disposizione delle specie, stimolando la biodiversità dei popolamenti associati.
Tra le forme di vita che popolano le pozze di scogliera si annoverano l'Actinia equina, comunemente nota come pomodoro di mare, e l'Anemonia sulcatadetta capelli di Venere; diverse specie di madrepore dai colori intensissimi come le Astroides calycularis e i Parazoanthus axinellae, e numerose specie di piccoli pesci, tra cui varie specie di bavose e di labridi, il succiascoglio (Lepadogaster lepadogaster) e lo scorfano (Scorpaena scrof.


IL SENTIERO COSTIERO:

È il sentiero principale della Riserva, il più battuto dai visitatori.
Si snoda per circa 7 km e collega l'ingresso di Scopello (Ingresso Sud) a quello di San Vito Lo Capo (Ingresso Nord). Durata: circa 2 ore (sola andata).
Subito dopo l'ingresso si attraversa la galleria, frutto dell'antico progetto di costruzione di una strada litoranea, e dopo un centinaio di metri si incontra una prima deviazione che conduce ad un'area attrezzata per picnic. Dopo un breve cammino si incontra il Centro visitatori, sede di un piccolo Museo Naturalistico, subito dopo il quale una deviazione conduce alle calette di Punta Capreria, due incantevoli spiaggette di ciottoli incastonate fra le rocce.
Zingaro map.png
Continuando sul sentiero principale si attraversa un tratto di circa 2 km di gariga costiera e si giunge a Cala del Varo, dove si trova un piccolo rifugio, aperto solo nei mesi estivi. Dopo un ulteriore breve tratto di cammino si giunge in contrada Zingaro, il cuore della Riserva, dominato dalla macchia a palma nana. La contrada ospita alcuni caseggiati rurali. Da qui si possono facilmente raggiungere Cala della Disa e Cala Berretta. Procedendo ancora oltre si raggiungono prima la contrada Marinella (e la omonima incantevole caletta) e successivamente la contrada Uzzo (e l'ennesima splendida caletta). Da qui una breve deviazione in salita consente di raggiungere la grotta dell'Uzzo, di interesse archeologico. A meno di 300 m dalla grotta è ubicato il Museo della Civiltà Contadina, che custodisce testimonianze del ciclo del grano ed esempi delle tecniche di intreccio delle fibre vegetali autoctone. Poco prima di raggiungere l'ingresso Nord si incontra il caseggiato della Tonnarella dell'Uzzo, sede del Museo delle Attività Marinare.
Rifornimenti d'acqua sono disponibili a Cala del Varo (solo nei mesi estivi) e al Museo della Civiltà Contadina in contrada Uzzo.


IL SENTIERO DI MEZZA COSTA:

È il sentiero più panoramico.
Ha un tragitto di 8,5 km. Durata 4h 30 m.
Dall'ingresso Sud della Riserva si raggiunge il Centro visitatori; da qui un ripido sentiero in salita, smorzato da alcuni tornanti, conduce all'inizio del sentiero di mezza costa (290 m), che percorre la Riserva da sud a nord, parallelamente al sentiero costiero. Lasciatasi sulla sinistra una deviazione che conduce al Bosco di Scardina (sentieri alti), si prosegue diritto sino a raggiungere Pizzo del Corvo. Da qui il sentiero procede quasi pianeggiante sino a contrada Sughero (367 m), offrendo una splendida vista dall'alto della linea di costa. In contrada Sughero si incontrano diversi caseggiati rurali, alcuni dei quali adibiti a rifugi. Il sentiero prosegue per altri 2 km, in leggera salita, sino a Borgo Cusenza. Si tratta di un piccolo borgo rurale, un tempo abitato da pastori e contadini, perfettamente conservato. Da qui un sentiero consente di raggiungere il circuito dei sentieri alti mentre percorrendo in discesa il Canalone delle Grotte di Mastro Peppe Siino si arriva al sentiero costiero e da qui verso l'uscita.
Nei mesi primaverili il sentiero di mezza costa è teatro della fioritura di numerose specie di orchidee.
Rifornimenti d'acqua sono disponibili in contrada Sughero e a Borgo Cusenza.


IL SENTIERO ALTO:

È senza dubbio il sentiero più impegnativo.
Lunghezza: 17,5 km. Durata: 7 ore.
Dall'ingresso Sud della Riserva si raggiunge il Centro visitatori; da qui un ripido sentiero in salita, smorzato da alcuni tornanti, conduce all'inizio del sentiero di mezza costa (290 m). Percorrendo il sentiero di mezza costa, dopo poche centinaia di metri sulla sinistra si incontra un sentiero che si inerpica attraverso un ripido canalone sui fianchi del quale si alternano macchie di ginestra odorosa e aree di prateria ad ampelodesma. Al termine del sentiero si arriva ad un pianoro (533 m) situato ai piedi del Bosco di Scardina, una zona di rimboschimento occupata da una pineta di pini d'Aleppo. Si prosegue per un sentiero in leggera salita che costeggia i caseggiati rurali di Marcato della Mennola e Marcato della Sterna e dopo circa 15 min di cammino si raggiunge Pianello, una zona in cui si alternano tratti pianeggianti disteppa mediterranea, rilievi calcarei e piccole depressioni carsiche e dove, nella stagione delle piogge, si forma un piccolo gorgo affiorante. In questo tratto il sentiero alto consente una deviazione per raggiungere il sentiero di mezza costa (deviazione per Sughero - deviazione per Borgo Cusenza). Da Pianello il sentiero procede in linea retta lungo il confine della riserva per circa 3 km attraverso la località Salta le viti, incontrando i rilievi di Monte Speziale (914 m) e Pizzo dell'Aquila (759 m). Proseguendo si arriva a Portella Mandra Nuova (717 m), un pianoro che ospita una fitta lecceta, da cui si gode un panorama mozzafiato; da qui è possibile salire a Monte Passo del Lupo (868 m), sul versante orientale del quale è presente l'unica stazione dell'endemico Limonium todaroanum, ovvero ridiscendere verso Marcato Puntina e Borgo Cusenza, un agglomerato di case rurali che in passato era abitato stagionalmente dal periodo estivo fino al mese di dicembre, periodo di semina del grano. Nella discesa, a circa un chilometro e mezzo dal Borgo, c'è un abbeveratoio risalente al 1696.

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