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martedì 12 marzo 2013

CATANIA la storia , la leggenda ,e la tradizione...




La storia di Catania:
Tucle e i Calcidesi, mossisi da Nasso cinque anni dopo la fondazione di Siracusa e cacciati i siculi con una guerra, fondano Leontini e quindi Catania: gli stessi catanesi però si dettero come fondatore Evarco.
Sappiamo così che Katane venne fondata da coloni calcidesi, poco dopo il 729 a.C., durante la fase più antica della colonizzazione greca della Sicilia. In precedenza il territorio era abitato dai Siculi, immigrati dall’Italia centro-meridionale durante l’età del bronzo, ricacciando verso occidente le popolazioni Sicane che vi si erano stabilite in precedenza. Katane e le altre civiltà calcidesi, erette intorno alla pianura dove scorre il Simeto, vissero in armonia sia fra di loro che con le popolazioni sicule che occupavano i territori limitrofi, fino all’avvento al potere di Ierone I tiranno di Siracusa che, nel 476, fece trasferire in maniere coercitiva, le popolazioni di Naxos e Katane e Leontini, rifondando Katane con coloni del Peloponneso, dandogli il nome di Etna, affidando il governo della città a suo figlio Diomene. Questo tragico avvenimento è narrato da Pindaro nella “Prima Pitica”, come l’elemento centrale del poema ed è ripreso anche da Eschilo nella tragedia “Etnee”, purtroppo perduta (c. 470 a.C.). Soltanto nel 461, in seguito ad un attacco siculo - siracusano contro Etna, fu costretta la popolazione di quest’ ultima a rifugiarsi in territorio siculo ad Inessa che venne ribattezzata Etna. Katane, ripopolata con gli abitanti scacciati a suo tempo da Ierone e con i nuovi coloni siracusani e siculi, riprese il suo nome originario. Di grande rilievo, anche se velata la leggenda, emerge la figura del legislatore catanese Coronda, di cui non è accertato il periodo in cui visse (probabilmente, basandoci su di una congettura, tra la fine del settimo o l’inizio del sesto secolo): è l’ autore di un codice di leggi scritte che venne poi adottato, da varie città greco-sicule di origine calcidese. Katane nel 263 a.C. viene conquistata dai Romani nel corso della seconda guerra punica e ribattezzata Catina. Dopo il 210 a.C., al termine della conquista romana di tutta l’isola, città e campagne si trovano in condizione di grandi rovine e devastazioni, necessitando quindi di una alacre e imponente ricostruzione. La “Pax romana” sortì immediatamente questo effetto e “Catina”, divenne, sia in età repubblicana che in quella imperiale, una città ricca e prosperosa; ne sono testimonianza sia le fonti che il considerevole numero di edifici di questo periodo riportati alla luce, benché, come ci ricorda lo storico cristiano P. Orosio, sia stata distrutta nel 123 da una tremenda eruzione.





il simbolo:  


La Fontana dell'Elefante è stata realizzata da Vaccarini nell'ambito della ricostruzione della città etnea dopo il terremoto dell'11 gennaio 1693. In modo acritico è stato ribadito che l'architetto palermitano si ispirò all'Obelisco della Minerva diGian Lorenzo Bernini. In realtà l'iconografia dell'elefante sormontato da un obelisco con palla sulla sommità è documentata nell'Hypnerotomachia Poliphili (Venezia, 1499) attribuita a Francesco Colonna.
Il basamento è formato da un piedistallo di marmo bianco situato al centro di una vasca, anch'essa in marmo, in cui cadono dei getti d'acqua che fuoriescono dal basamento. Sul basamento due sculture riproducono i due fiumi di Catania, ilSimeto e l'Amenano. Al di sopra si trova la statua dell'elefante, rivolto con la proboscide verso la Cattedrale di Sant'Agata. Questa statua di epoca incerta era originariamente ricavata da un unico blocco di pietra lavica, ma a seguito del sisma del 1693 si frantumarono le zampe posteriori, restaurate dallo stesso Vaccarini in vista della sua collocazione nella piazza. Durante il restauro l'architetto aggiunse i bianchi occhi e le zanne in pietra calcarea. Ai lati dell'elefante cade unagualdrappa marmorea sulla quale sono incisi gli stemmi di Sant'Agata, patrona di Catania.
Sulla schiena dell'animale si trova un obelisco egittizzante, alto 3,66 metri, in granito, ipoteticamente di Syene; non hageroglifici, ma è decorato da figure di stile egizio che non costituiscono una scrittura geroglifica di senso compiuto. Di cronologia incerta, forse era una delle due mete dell'antico circo romano di Catania, l'altro, più frammentario, si trova invece nel cortile del Castello Ursino. Sulla parte sommitale dell'obelisco sono stati montati un globo, circondato da una corona di una foglia di palma (rappresentante il martirio) e di un ramo di gigli (rappresentante la purezza), più sopra una tavoletta metallica su cui vi è l'iscrizione dedicata a Sant'Agata con l'acronimo "MSSHDPL" («Mente sana e sincera, per l'onore di Dio e per la liberazione della sua patria»), e infine una croce

LA STORIA:
Secondo il geografo Idrisi, la statua dell'elefante era stata realizzata durante la dominazione cartaginese o bizantina. Nel periodo in cui visitò Catania (XII secolo), l'elefante di pietra lavica si trovava già all'interno delle mura della città[3]. Vi sarebbe stato portato dai benedettini delmonastero di Sant'Agata, che lo avrebbero posto sotto un arco detto "di Liodoro"[4]. Nel 1239 la statua dell'elefante fu scelta come simbolo di Catania. Alcuni sostengono che il trasferimento all'interno delle mura avvenne proprio in quest'occasione.
L'obelisco, invece, probabilmente fu portato a Catania durante le crociate, proveniente da Syene. In città fu collocato nel Circo Massimo, secondo l'ipotesi di Ignazio Paternò Castello.
Nel 1508 venne trasferito sul lato ovest (o nord) del municipio e gli venne affiancata l'iscrizione «Ferdinandus. Hispaniae utriusque. Siciliae. Rege - Elephans erectus fuit a Cesare Jojenio - Justitiario - MDVII». In tale collocazione fu gravemente danneggiato durante il terremoto del 1693; il crollo dei palazzi circostanti infatti provocò la rottura della proboscide e delle zampe, che furono ricostruite da Vaccarini nel 1735 su sollecitazione diFilippo d'Orville.
Fino al 1737 Vaccarini lavorò per costruire la fontana, che fu poi completata con l'obelisco egittizzante e con l'iscrizione agatina. Nel 1757 venne ristrutturata per la prima volta, per aggiungere una vasca. Nel 1826 la fontana fu circoscritta da una cancellata di ferro, entro la quale fu realizzato un piccolo giardino. Poco dopo l'unità d'Italia, venne presa la decisione di spostare la fontana dalla piazza del Duomo a piazza Palestro: il 30 maggio 1862, però, Bonaventura Gravina organizzò una sommossa popolare che bloccò il trasferimento.
Sono stati due i restauri eseguiti nel corso del XX secolo: nel 1905 venne realizzata una seconda vasca e nel 1998 sono stati eliminati la cancellata e il giardino per cui oggi è possibile sedersi su alcuni gradoni ai piedi del basamento.

LA LEGGENDA:

Un’antica leggenda è riportata l’origine dell’elefante di Catania, che dal 1239 è il simbolo ufficiale della città. Questa leggenda racconta che quando Catania fu per la prima volta abitata, tutti gli animali feroci e pericolosi furono messi in fuga da un elefante, al quale i catanesi, in segno di ringraziamento, eressero una statua, da loro chiamata con il nome popolare di liotru, che è una correzione dialettale del nome di Elidoro, un dotto catanese dell’VIII secolo, che fu fatto bruciare vivo nel 778 dal vescovo di Catania san Leone II il Taumaturgo, perché Elidoro, non essendo riuscito a diventare vescovo della città, disturbava le funzioni sacre con varie magie, tra cui quella di far camminare l’elefante di pietra.

Diverse ipotesi sono state fatte dagli studiosi per spiegare l’origine e il significato della statua di pietra, che oggi troneggia in Piazza Duomo, nella sistemazione datale dal Vaccarini nel 1736.

Di queste ipotesi due meritano un cenno: la prima è quella dello storico Pietro Carrera da Militello (1571-1647), che nel suo libro Memorie Historiche della città di Catania, lo spiegò come simbolo di una vittoria militare riportata dai catanesi sui libici; ipotesi che ha generato il telone del teatro Bellini di Catania, perché il pittore Sciuti nel 1890, per l’inaugurazione del teatro, vi raffigurò proprio questa immaginaria vittoria dei catanesi sui libici.

L’ipotesi più attendibile è però quella espressa dal geografo arabo Idrisi nel XII secolo :secondo Idrisi, l’elefante di Catania è una statua magica, costruito in epoca bizantina, proprio per tenere lontano da Catania le offese dell’Etna; questa sembra la migliore spiegazione che si possa dare sul simpatico pachiderma, cui i catanesi sono legatissimi, tanto da minacciare una sommossa popolare, quando nel 1862 si ventilò la proposta di trasferire u liotru dalla Piazza Duomo alla periferica piazza Palestro.


LA PADRONA DI CATANIA: SANT' AGATA
Secondo la leggenda, Agata nacque in una famiglia siciliana ricca e nobile, nell'anno 246, indicata come di origine catanese o palermitana[1].
I documenti narrativi del martirio di s. Agata in tre punti indicano che s. Agata potrebbe essere nata a Catania: Il primo punto è quello relativo all'inizio del processo, secondo il testo fornito dalla redazione latina. Tale redazione, infatti, esordisce rilevando nel vers. 1 che Agata fu martirizzata a Catania; nel vers. 24 la stessa redazione latina riferisce che Quinziano interpella Agata invitandola a dire di che condizione fosse; e nel vers. 25 riferisce che Agata rispose a Quinziano dicendo: "Io non solo sono libera di nascita, ma provengo anche da nobile famiglia, come lo attesta tutta la mia parentela": con queste parole Agata dichiara che tutta la sua parentela era presente e residente a Catania e quindi dà ad intendere che anch'essa era residente a Catania e vi era residente sin dal giorno della sua nascita. Il secondo punto è quello relativo all'apparizione dell'Angelo che, nel momento in cui il cadavere di s. Agata viene seppellito, depone dentro il suo sepolcro una lapide di marmo in cui era scolpito che s. Agata era "anima santa, onore di Dio e liberazione della sua Patria": a tale proposito i versetti 102-104 rilevano che, per dimostrare la verità di quanto espresso in quella lapide e cioè che Agata era la liberazione della sua Patria, Dio, ad un anno appena dalla morte di s. Agata, fa arrestare la lava dell'Etna, che stava invadendo Catania. II terzo punto è quello relativo al fatto che il testo della redazione greca, riportato nel manoscritto del Senato di Messina, espressamente recita che "Catania è la patria della magnanima s. Agata" : tale testo è di assoluto valore storico perché risale all'epoca in cui in Catania ancora non era stato eretto alcun tempio a s. Agata .
Secondo la tradizione cattolica sant'Agata si consacrò a Dio all'età di 15 anni circa, ma studi storico-giuridici approfonditi rivelano un'età non inferiore ai 21 anni: non prima di questa età, infatti, una ragazza poteva essere consacrata diaconessa come effettivamente era Agata, cosa documentata dalla tradizione orale catanese, dai documenti scritti narranti il suo martirio e dalle raffigurazioni iconografiche ravennate, con particolare riferimento alla tunica bianca e al pallio rosso; possiamo quindi a ragione immaginarla, più che come una ragazzina, piuttosto come una donna con ruolo attivo nella sua comunità cristiana: una diaconessa aveva infatti il compito, fra gli altri, di istruire i nuovi adepti alla fede cristiana (catechesi) e preparare i più giovani al battesimo alla prima comunione e alla cresima.
Inoltre, da un punto di vista giuridico, Agata aveva il titolo di "proprietaria di poderi", cioè di beni immobili. Per avere questo titolo le leggi vigenti nell'impero romano pretendevano il raggiungimento del ventunesimo anno di età. Rimanendo sempre in tema giuridico, durante il processo cui Agata fu sottoposta, fu messa in atto la Lex Laetoria, una legge che proteggeva i giovani d'età compresa tra i 20 e i 25 anni, soprattutto giovani donne, dando a chiunque la possibilità di contrapporre una actio polularis contro gli abusi di potere commessi dall'inquisitore: prova ne sia che il processo di Agata si chiuse con un'insurrezione popolare contro Quinziano, che dovette fuggire per sottrarsi al linciaggio della folla catanese.
Nel periodo fra il 250 e il 251 il proconsole Quinziano, giunto alla sede di Catania anche con l'intento di far rispettare l'editto dell'imperatore Decio, che chiedeva a tutti i cristiani di abiurare pubblicamente la loro fede, s'invaghì della giovinetta e, saputo della consacrazione, le ordinò, senza successo, di ripudiare la sua fede e di adorare gli dei paganiMa più realisticamente si può immaginare un quadro più complesso: ovvero, dietro la condanna di Agata, la più esposta nella sua benestante famiglia, potrebbe esserci l'intento della confisca di tutti i loro beni.[senza fonte]
Al rifiuto deciso di Agata, il proconsole la affidò per un mese alla custodia rieducativa della cortigiana Afrodisia e delle sue figlie, persone molto corrotte. È probabile che Afrodisia fosse una sacerdotessa di Venere o di Cerere, e pertanto dedita alla prostituzione sacra. Il fine di tale affidamento era la corruzione morale di Agata, attraverso una continua pressione psicologica, fatta di allettamenti e minacce, per sottometterla alle voglie di Quinziano, arrivando a tentare di trascinare la giovane catanese nei ritrovi dionisiaci e relative orge, allora molto diffuse a Catania. Ma Agata, in quei giorni, a questi attacchi perversi che le venivano sferrati, contrappose l'assoluta fede in Dio; e pertanto uscì da quella lotta vittoriosa e sicuramente più forte di prima, tanto da scoraggiare le sue stesse tentatrici, le quali rinunciarono all'impegno assuntosi, riconsegnando Agata a Quinziano.
Rivelatosi inutile il tentativo di corromperne i princìpi Quinziano diede avvio ad un processo e convocò Agata al palazzo pretorio. Memorabili sono i dialoghi tra il proconsole e la santa che la tradizione conserva, dialoghi da cui si evince senza dubbio come Agata fosse edotta in dialettica e retorica.
Breve fu il passaggio dal processo al carcere e alle violenze con l'intento di piegare la giovinetta. Inizialmente venne fustigata e sottoposta al violento strappo delle mammelle, mediante delle tenaglie. La tradizione indica che nella notte venne visitata da san Pietro che la rassicurò e ne risanò le ferite. Infine venne sottoposta al supplizio dei carboni ardenti. La notte seguente all'ultima violenza, il 5 febbraio 251, Agata spirò nella sua cella.



IL VELO:
Il velo di sant'Agata è una reliquia conservata nella cattedrale di Catania in uno scrigno d'argento insieme ad altre reliquie della santa. Secondo una leggenda è un velo usato da una donna per coprire la Santa durante il martirio con i carboni ardenti. Nei fatti il cosiddetto "velo" di colore rosso faceva parte del vestimento con cui Agata si presentò al giudizio, essendo questo, indossato su una tunica bianca, l'abito delle diaconesse consacrate a Dio. Secondo un'altra leggenda il velo era bianco e diventò rosso al contatto col fuoco della brace.
Nel corso dei secoli, venne più volte portato in processione come estremo rimedio per fermare la lava dell'Etna.

I MIRACOLI:
Molti sono i miracoli attribuiti a sant'Agata nel corso dei secoli:
  • Appena un anno dopo la sua morte, nel 252, Catania venne colpita da una grave eruzione dell'Etna. L'eruzione ebbe inizio il giorno 1 di febbraio e aveva già distrutto alcuni villaggi alla periferia di Catania. Il popolo andò in cattedrale e preso il velo di sant'Agata lo portò in processione nei pressi della colata. Questa, secondo la tradizione, si arrestò dopo breve tempo. Era il giorno 5 di febbraio, la data del martirio della vergine catanese.
  • La santa, Lucia di Siracusa, quasi coetanea di sant'Agata, andò con la madre gravemente ammalata a pregare sulla tomba di Agata per implorarne la guarigione. Narra la leggenda che Lucia, mentre pregava, ebbe una visione nella quale sant'Agata le disse «perché sei venuta qui quando ciò che mi chiedi puoi farlo anche tu? Così come Catania è protetta da me, la tua Siracusa lo sarà da te.» La madre di Lucia guarì e Lucia dopo poco venne martirizzata.
  • Nel 1169 Catania fu scossa da un disastroso terremoto nel giorno 4 febbraio alle ore 21 quando molti cittadini catanesi erano radunati nella cattedrale per pregare in onore della santa. Nel crollo della cattedrale morirono il vescovo Aiello e 44 monaci, oltre ad un numero imprecisato di fedeli. Nei giorni seguenti altre scosse di terremoto e maremoto imperversarono sulla città. La tradizione vuole che il terremoto sia cessato soltanto quando i cittadini presero il velo della santa e lo portarono in processione.
  • Secondo le leggende più di quindici volte, dal 252 al 1886, Catania è stata salvata dalla distruzione da parte della lava, ed è poi stata preservata nel 535 dagli Ostrogoti, nel 1231 dall'ira di Federico Il, nel 1575 e nel 1743 dalla peste.

LA LIBERAZIONE DELL'ECCIDIO:

Il 25 luglio 1127 i Mori presero d'assedio le coste siciliane. Dove approdavano erano stragi, massacri e rapine. Quando stavano per assalire la costa catanese, gli abitanti della città ricorsero all'intercessione di sant'Agata e, secondo la leggenda, la grazia non tardò: Catania fu risparmiata da quel flagello.
Nel 1231 Federico II di Svevia era giunto in Sicilia per assoggettarla. Molte città si ammutinarono e Catania fu tra queste. Federico II furente ne ordinò la distruzione, ma i catanesi ottennero che, prima dell'esecuzione di quello sterminio, in cattedrale venisse celebrata l'ultima messa, alla quale presenziò lo stesso Federico II. Fu durante quella funzione che il re svevo, sulle pagine del suo breviario, lesse una frase, comparsa miracolosamente, che gli suonò come un pericoloso avvertimento: Noli offendere Patriam Agathae quia ultrix iniuriarum est[2].
Immediatamente abbandonò il progetto di distruzione, revocò l'editto e si accontentò soltanto che il popolo passasse sotto due spade incrociate, pendenti da un arco eretto in mezzo alla città. A Federico bastò un atto di sottomissione e lasciò incolumi i cittadini e Catania, salvata per l'intercessione della Madonna delle Grazie e di sant'Agata.
La città ricorda questo evento con un bassorilievo di marmo che si trova oggi all'ingresso del Palazzo comunale e raffigura Agata, seduta su un trono come una vera regina, che calpesta il volto barbuto di Federico II di Svevia..

Dal 3 al 5 febbraio, Catania dedica alla Santa una grande festa, misto di fede e di folklore. Secondo la tradizione alla notizia del rientro delle reliquie della santa il vescovo uscì in processione per la città a piedi scalzi, con le vesti da notte seguito dal clero, dai nobili e dal popolo. Controversa è l'origine del tradizionale abito che i devoti indossano nei giorni dei festeggiamenti: camici e guanti bianchi con in testa una papalina nera. Una radicata leggenda popolare vuole siano legati al fatto che, i cittadini catanesi, svegliati in piena notte dal suono delle campane al rientro delle reliquie in città, si riversarono nelle strade in camicia da notte; la leggenda risulta essere priva di fondamento poiché l'uso della camicia da notte risale al 1300 mentre la traslazione delle reliquie avvenne nel 1126. Un'altra leggenda afferma che l'abito bianco sia legato al precedente culto della dea Iside. Ma la tradizione storica più affermata indica che l'abito votivo altro non è che un saio penitenziale o cilicio, si afferma inoltre, che sia una tunica, bianca per purezza, indossata il 17 agosto, quando due soldati riportarono le reliquie a Catania da Costantinopoli.




LA FESTA:
Altri elementi caratteristici della festa sono il fercolo d'argento con i resti della Santa posto su un carro o Vara, anche questo in argento. Legati al veicolo due cordoni di oltre 100 metri a cui si aggrappano centinaia di “Devoti” (con il Sacco agatino - tunica bianca stretta da un cordone -, cuffia nera, fazzoletto e guanti bianchi) che fino al 6 febbraio tirano instancabilmente il carro. La Vara viene portata in processione insieme a dodicicandelore o cannalori appartenenti ciascuna alle corporazioni degli artigiani cittadini. Tutto avviene fra ali di folla che agita bianchi fazzoletti e gridaCittadini, cittadini, semu tutti devoti tutti . È considerata tra le tre principali feste cattoliche a livello mondiale per affluenza.




IL TEATRO:
Catania è la città a più alta densità teatrale della Sicilia. Molteplici le compagnie teatrali che vi operano, sia professionali che amatoriali. Il più importante teatro della città è il Teatro Massimo Bellini, costruito, seguendo lo stile dell'Opera di Parigi, dall'architetto Carlo Sada alla fine del XIX secolo ed inaugurato nel 1890. Oggi è un teatro lirico di tradizione, vanta un'orchestra sinfonica ed un coro stabile ed è sede di stagione operistica e concertistica. Da alcuni anni dispone della sala del Teatro Sangiorgi che viene utilizzata per concerti di musica da camera e per prove di spettacoli. Molto attivi sono inoltre il Teatro Stabile (che svolge le sue attività sia nel Teatro Verga che nel Teatro Musco) e il Teatro Metropolitan, nonché il Piccolo Teatro. Esistono poi il Teatro Ambasciatori e l'Erwin Piscator.



I PERSONAGGI CELEBRI E I GRANDI POETI:
All'epoca medievale appartengono personalità come Federico II, che a Catania fece costruire come monito il Castello Ursino, futura sede del parlamento aragonese di Sicilia, dopo aver risparmiato la cittadinanza a lui ribellatasi e legiferato, dando ampi spazi di potere al suo arcivescovo, Gualtiero di Palearia; a Catania ebbe i natali la regina Costanza, futura regina del regno degli Aragona di Sicilia, come qui nacque e regnò Federico IV d'Aragona, ricordato soprattutto per la pace che mise fine alla guerra del Vespro. Il sistema difensivo della città rinascimentale si deve a Tiburzio Spannocchi, architetto e ingegnere di re Carlo I, che ne ricavò la prima cartografia scientifica;Giovanni Francesco Paceco, che fu duca di Uzeda, diede incarico a Giuseppe Lanza, duca di Camastra di organizzare la ricostruzione della città dopo il terremoto del 1693; il pittore Olivio Sozzi, considerato uno degli artisti di spicco della prima metà del XVIII secolo in Sicilia, vi nacque nel 1690; il principe Ignazio Paternò Castello, mecenate e nobile illuminato del XVIII secolo, ne incrementò turismo e archeologia con la creazione del suo museo e con gli scavi svolti in città; Saverio Landolina, archeologo, vi nacque, come pure il poeta e scrittore Domenico Tempio; va ricordato anche Vito Maria Amico, cui si deve la più importante raccolta documentaristica del suo tempo per la Sicilia.
Nel XIX secolo spiccano diverse figure in campo letterario, come ad esempio Giovanni Verga, che visse per un certo periodo a Catania e vi ambientò la novella Storia di una capinera, o come Luigi Capuana, che studiò giurisprudenza nell'Ateneo catanese, o infine Federico De Roberto, che pure studiò a Catania. In ambito musicale spiccano personaggi come Giovanni Pacini, qui nato e che fu ai suoi tempi noto compositore, il raffinato Vincenzo Bellini, anch'egli nato e cresciuto a Catania, o infine Francesco Paolo Frontini, altro celebre compositore. In questo secolo iniziano anche a emergere personalità illustri della politica italiana, come ad esempio Giuseppe de Felice Giuffrida, nato in città, che fu tra i promotori dei Fasci siciliani; in campo astrofisico gli scienziati Peters e Sartorius (a lui si deve la descrizione dei crateri dell'Etna che prendono il suo nome, i Monti Sartorius) sono nel capoluogo etneo per realizzare la meridiana della chiesa di San Nicolò, ritenuta la più completa d'Italia per la gran quantità di informazione che essa fornisce[38]; in quello matematico Sebastiano Catania, nato a Catania e impegnatosi nella trasposizione dell'organizzazione ipotetico-deduttiva delle proposizioni matematiche; nel campo delle scienze naturali Carlo Gemmellaro, noto geologo, nacque anch'egli a Catania.
Nei primi decenni del XX secolo le figure di spicco del capoluogo etneo si distinguono in campi come la fisica (Filippo Eredia nato e vissuto a Catania, Ettore Majoranapromettente fisico misteriosamente scomparso nel 1938 ed Enrico Boggio Lera che vi passò oltre cinquant'anni della sua vita), la poesia (Gaetano ArdizzoniGiovanni Formisano e altri che qui nacquero) e la lirica (Gaetano Emanuel Calì, compositore, noto soprattutto per la raccolta di brani popolari e dialettali, o Francesco Pastura a cui si deve la raccolta epistolare di Vincenzo Bellini). In politica personaggi di spessore furono Napoleone Colajanni, deputato e senatore della Repubblica, mentre nei primi decenni del secolo si dedicò alla scultura Mimì Maria Lazzaro. Spiccarono nell'arte drammatica Angelo Musco, maestro del teatro dialettale, Giovanni Grasso, attore drammatico e Goliarda Sapienza, attrice e scrittrice. Anche in tempi recenti la città è legata a personalità illustri, come nel campo musicale (Gianni BellaMarcella Bella,Vincenzo SpampinatoFranco BattiatoCarmen Consoli, i LautariGerardina Trovato) o in quello artistico (certamente tra i più noti è Emilio Greco, spentosi a Roma nel1995) o in quello giornalistico (tra cui primeggia Giuseppe Fava, che visse a lungo a Catania e che qui venne ucciso dalla mafia, ma si ricorda anche Candido Cannavò, noto giornalista de La Gazzetta dello Sport, morto nel 2009).






MITI E LEGGENDE :

Il clima della Sicilia
Il racconto mitologico afferma che un giorno di primavera il Dio Plutone, re del mondo sotterraneo e fratello di Giove, sbucò in Sicilia dal lago di Pergusa; e rimase colpito dalla visione che apparve ai suoi occhi: in mezzo ai prati, la giovane Proserpina, assieme alle ninfe che la accompagnavano, raccoglieva fiori variopinti e profumati. Vederla, innamorarsene e rapirla, fu tutt’uno per Plutone; e se la portò giù agli inferi. Il ratto fu cosi subitaneo, che nessuno seppe dare indicazioni alla madre Cerere, che per tre giorni e tre notti ricercò Proserpina, per tutta la terra, facendosi luce di notte con un pino da lei divelto e acceso nel cratere dell’Etna. Alla fine dei tre giorni d’inutili ricerche, Cerere si adirò e cominciò a far soffrire gli uomini, provocando siccità, carestie e pestilenze. Gli uomini allora si rivolsero a Giove, supplicandolo di trovare una soluzione; e Giove risolse il problema, decidendo che Proserpina stesse per otto mesi, da gennaio ad agosto, sulla terra assieme alla madre; e per quattro mesi da settembre a dicembre, sotto terra col marito Plutone, determinando così l’alternanza di due sole stagioni nel clima della Sicilia.


Pracchio (Catania 1708):
Nel 1708, quindici anni dopo il terribile terremoto che aveva raso al suolo Catania, un’epidemia dimezzò l’ancora esigua popolazione catanese. A quei tempi la città era piccola, angusta e terribilmente sporca. Il quartiere del Carmine, sorto dopo il 1693 fuori la Porta di Aci, era detto pracchio appunto per la sua sporcizia.La situazione igienico-sanitaria sfuggiva di mano al Senato. Non si riusciva a porre un serio freno al dilagante sudiciume che a sua volta era causa di malattie, di epidemie. Il grave stato di cose indusse allora il Senato a fare reformare l’antiche o aumentare le norme che regolavano l’officio del Mastro di Mondezza, il quale, a sua volta, dipendeva direttamente da un Patrizio incaricato di controllare la situazione igienica della città. Il Mastro di mondezza aveva il diritto di promulgare bandi o comandamenti secondo le occorrenze. Le norme erano numerose e abbastanza esplicite. Ai cittadini fra l’altro era proibito di "gettare sterco e mondezze per le pubbliche strade, ma appoggiarle alle proprie mura al fine di poterle trasportare fra il giro di giorni 15 nella nuova strada del Fortino; o pure nel fosso grande vicino al bastione antico di S.Barbara vicino la casa dé Teatini o altrove". Poi le regole di igiene e di polizia urbana divennero più drastiche e si estesero in altri settori: fu vietato, "per l’incomodo e detrimento che apportano al pubblico della comune salute, la retina delle mule per le vie della città, nonché il vagare di porci, oppure far bagnare gli animali -cavalli o muli- in riva al mare". Il Patrizio, in sostanza, doveva vigilare affinché le bestie da carico non girassero per la città, ma si limitassero a percorrere le strade più corte per attravers fatto obbligo di "andar correndo per la città". Un mestiere difficile quello della bestia, nel 700 catan arla. A cavalli e muli era, infatti, vietato "passare di giorno per il Corso S.Filippo, piano di S.Agata, Quattro Cantonere".


I giganti Ursini e il paladino Uzeda (Catania 1239-1250):
Il più insigne monumento medioevale di Catania è il poderoso castello Ursino, fatto costruire dall’imperatore Federico II di Svevia dal 1239 al 1250, nello stesso luogo dove sorgeva un castello che dominava il porto e il golfo di Catania, che perciò latinamente si denominava castrum sinus, cioècastello del golfo, da cui per corruzione si ebbe castello Ursino. Per spiegare la denominazione diUrsino, la fantasia popolare ha immaginato l’esistenza di giganti saraceni, chiamati appunto, e non si sa perché, Ursini, che il conte normanno Ruggero avrebbe sconfitto nell’XI secolo, impadronendosi del loro castello sulla spiaggia di Catania. Naturalmente, questa leggenda non ha alcun fondamento storico, ed è evidente la sua analogia con la leggenda normanna di Messina, in cui il conte Ruggero sconfisse i due giganteschi castellani saraceni Grifone e Mata, ne occupa il castello e li costringe ad assistere al trionfo cristiano; come non ha alcuna consistenza storica l’altra leggenda relativa ai giganti Ursini, secondo la quale essi sarebbero stati sconfitti e uccisi dal paladino catanese Uzeta (Questo paladino dalla nera armatura , sebbene sia stato eternato nel bronzo di uno degli artistici candelabri di Piazza Università, è frutto della fantasia di un giornalista catanese dei primi del novecento, Giuseppe Malfa, che lo immaginò figlio di povera gente, divenuto cavaliere per il suo valore: e come in tutte le favole belle, egli uccide i suoi nemici, tra cui i giganti Ursini, e finisce per sposare la figlia del re.




Un miracolo debole:
Tra le pieghe della leggenda sovente dovrebbe trovarsi una traccia storica più o meno veritiera, ma la leggenda, spesso, tralascia di narrare la veridicità dei fatti, giacché l’evoluzione della narrazione si arricchisce di fatti d’altri periodi, dilatandola così all’infinito.
Non è il caso dell’autore che di leggenda narra poco e nulla, ma di evento storico e di analisi ragionata e, tiene sempre presente la fede dei credenti che indubbiamente resta, di fatto, l’unica verità tangibile. In tutti i casi, il Miracolo di San Michele Arcangelo a Caltanissetta è illustrato come momento storico con tutte le contraddizioni del momento e risulta essere un’invitante momento di riflessione.



Billonia (Catania XIX – XX secolo):
Personaggio popolare e pittoresco della Catania a cavallo tra due secoli, il XIX e il XX. Era una donna minuta, tutt’altro che sgraziata, era la fioraia della Villa, sfiorita per conto suo, ma con la camicetta ostinatamente sfavillante di dorati lustrini. Andava anche su e giù per via Etnea con i fasci di fiori di campo, le margherite, le rose, che offriva alle coppiette di fidanzati sperando di ricevere una ricompensa, e di sera si piazzava davanti ai teatri. In fondo, era un’immagine gentile con i suoi coloratissimi costumi ricchi di nastri, un’immagine che sotto i lustrini tentava di nascondere un’immensa povertà. Ma c’era anche un pizzico di femminile civetteria in quello strano abbigliamento! Andava spesso in giro con la madre ma gli stenti le avevano rese uguali e sarebbe stato difficile capire, a vederle, chi di esse fosse la più vecchia. D’inverno trascorrevano gran parte delle giornate sui gradini della chiesa di San Biagio, in piazza Stesicoro, ma d’estate si trasferivano al giardino Bellini, sempre popolato di catanesi che accorrevano ad ascoltare i concerti della banda: e lì Billonia poteva raggranellare qualche soldino in più. Poi la madre morì, e poco dopo scoppiò il primo conflitto mondiale: e, mentre il mondo dava addio ai divertimenti e alle spensieratezze di un tempo, neanche Billonia, la semplice e inutile fioraia, travolta dai tempi e dalla guerra, ebbe più motivo di sopravvivere. Nessuno la vide più.



Pippa la Catanese (Catania XIII - XIV secolo):
Era una florida popolana nata a Catania, e morta a Napoli. Visse a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Il suo vero nome era Filippa per vezzo familiare detta Pippa. Di mestiere faceva la lavandaia ma il destino le riservò poi un’esistenza quasi splendida conclusa però con una morte atroce. Giovanissima, fù scelta per nutrice di Luigi, figlio di Roberto d’Angiò e Violante d’Aragona nato nel castello Ursino, per cui si addisse al nuovo servizio con entusiasmo di affettuosa mamma siciliana, tirando su con ogni cura il principe, che cresceva vigoroso. Allorché gli Angioini furono cacciati dalla Sicilia e ritornarono a Napoli, Pippa seguì la Corte dove i sovrani l’ebbero in particolare benevolenza, l’arricchirono di doni e la tennero in onore, anche quando il bambino regio improvvisamente morì. Anzi, conquistò un ruolo sempre più importante e frattanto aveva acquistato gentilezza di modi, fino a sposare il siniscalco del regno al quale diede tre figli. Nel 1343 sul trono salì Giovanna I d’Angiò che aveva sposato il principe Andrea d’Ungheria, il quale, ancora prima dell’età dei ventidue anni, volle essere consacrato re di Napoli, ostentando nella cerimonia dell’incoronazione, la minaccia della mannaia per i dissidenti, i quali erano molti e facevano affidamento sull’antipatia e l’intolleranza che la sovrana, che amoreggiava con il cugino Luigi duca di Taranto, nutriva per il marito contro il quale fu ordita una congiura; e il meschino fu strangolato e scaraventato giù da una finestra. Intervenne il Papa, quale supremo signore feudale sul Regno di Napoli, e cominciò, per identificare i congiurati, la caccia all’uomo ma la prima ad essere indiziata fu una donna, Pippa assurta da qualche tempo a rango di confidente della Regina. L’ex lavandaia fu atrocemente torturata, disse di aver saputo della congiura ma di non avervi preso parte. Ma dalla catanese si voleva sapere di più, adoperando tenaglie infuocate per dilaniare le carni di lei, per costringerla a parlare. Ma la donna, o perché veramente non sapeva nulla o per fedeltà alla sua regina, non parlò e spirò fra strazi orrendi. Anche uno dei suoi figli e un nipote furono martirizzati: bruciati vivi sul rogo mentre quelli che avevano assassinato Andrea restarono immuni da qualunque punizione.




La storia di Gammazita (Catania 1280):

Alla signoria degli Angioini in Sicilia (1270-1282) è da riferire la patetica storia della giovinetta catanese di cui la leggenda ci tramanda lo strano nome di Gammazita. Il racconto popolare relativo a questa virtuosa giovinetta catanese dice che essa preferì gettarsi in un pozzo, forse nel cortile dei Vela, verso il 1280, anziché cedere alle voglie di un soldataccio francese che la insidiava. E’ evidente il collegamento con la realtà storica, non soltanto per il riferimento alle angherie compiute dai dominatori francesi sugli oppressi siciliani, che fu una delle cause dello scoppio dei Vespri siciliani del 30 marzo 1282, ma anche per il tentativo di spiegare come macchie del sangue di Gammazita i depositi ferruginosi lasciati da una sorgente minerale, che scaturiva a Catania tra le lave di Via San Calogero, e da qualche tempo disseccate. Una vecchia poesia popolare ricorda le virtù di Gammazita; in questi versi, una virtuosa fidanzata del buon tempo antico, per tenere a bada il focoso innamorato, lo ammoniva a tenere le mani a posto, altrimenti ella, come la vergine catanese del periodo angioino, si sarebbe gettata in un pozzo, preferendo la morte al disonore.




LA LEGGENDA DI JANA DA MOTTA:
  nel 1409 la vedova Bianca di Navarra divenne Vicaria del regno,e l’anziano conte di Mòdica,Bernardo Cabrera,avrebbe voluto prenderla in sposa,per aumentare il suo potere,dato che era già Gran Giustiziere del Regno.La regina Bianca,però,non voleva sentirne;e allora il conte la inseguì per tutto il regno;la regina esausta si rivolse al suo fedele ammiraglio Sancio Ruiz de Livori,che catturò il focoso Giustiziere,e lo fece rinchiudere mel castello di Motta;dove al danno della prigionia si unì la beffa che ai suoi danni ordì una giovane donna di Motta Jana,che era una fedele e astuta damigella di corte della regina Bianca. D’accordo con l’ammiraglio Sancio,e ottenuto il permesso dalla regine,Jana si travestì da paggio,e si fece assumere al servizio del conte,entrando nelle sue grazie,e convincendolo a tentare un’evasione per riprendere i suoi tentativi di sposare la regina Bianca.Il conte abboccò all’amo;e una notte,fattolo travestire da contadino,la diabolica Jana lo fece calare da una finestra del castello,sostenendolo con una corda;ma ad un certo punto,Jana mollò la corda,e il povero conte cadde dentro una grossa rete,a bella posta preparata,dove rimase tutta la notte al freddo;e al mattino fu beffato dai contadini,che lo presero per un ladro,e lo derisero. Jana,riprese le sue vesti femminili,e rivelatasi chi era,lo fece inviare prigioniero al Castello Ursino di Catania,dove sbollirono definitivamente i suoi ardori per la regina Bianca. 




Pietra del mal consiglio.
 Ricorda gli eventi legati alla morte di Ferdinando il Cattolico (23 gennaio 1516), quando il viceré Ugo Moncada rifiutò di lasciare la carica e scatenò una guerra civile partì da Palermo e che funestò la Sicilia per tre anni. A Catania, dove la rivolta aveva numerosi seguaci, i nobili ribelli scelsero per le loro riunioni un giardino nel piano dei Trascini vicino un capitello dorico e un pezzo di architrave, entrambi in pietra lavica.La lotta continuò finche i fautori del Moncada non furono sconfitti. Il nuovo viceré, Ettore Pignatelli, stroncò le ribellioni colpendo direttamente e ferocemente i responabili. Il Senato della città, a ricordo di questi avvenimenti, spostò i due avanzi lavici: il capitello, da allora chiamato "Pietra del mal consiglio" fu innalzato nel piano della Fiera (oggi Piazza Università) mentre l’architrave fu sistemata all’ingresso del palazzo della Loggia. La pietra del mal consiglio nel 1872 fu posta nella corte del Palazzo Carcaci ai Quattro canti. L’architrave si trova nel cortiletto posteriore del teatro Massimo Bellini.


La grotta delle Palombe o delle Colombe:

 La Grotta delle Colombe si trova a Santa Maria La Scala (frazione di Acireale, in provincia di Catania) e raccoglie due leggende. In base alla prima tale

grotta era il rifugio segreto dei due innamorati Aci e Galatea. L'altra racconta la storia della ninfa Ionia che curava dei colombi che ogni inverno si rifugiavano in questa grotta. Purtroppo altre ninfe invidiose ne ostruirono l'entrata facendo morire i colombi e suscitando la disperazione della ninfa che fece crollare la grotta rimanendo seppellita insieme ai suoi amici.

Il terremoto del 1693:
 A questo cataclisma sono legate due leggende catanesi: quella di "Don Arcaloro" e quella del vescovo Carafa. La prima narra che nella mattina del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don Arcaloro Scamacca una fattucchiera locale che gridò a Don Arcaloro di affacciarsi perché gli doveva dire una cosa di grande importanza. Don Arcolaio ordinò che la facessero salire. La vecchia strega confidò al barone che quella notte aveva sognato Sant’Agata che supplicava il Signore di salvare la sua città dal terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi rifiutò la grazia. Il Barone si rifugiò in aperta campagna, dove attese che la profezia della strega si verificasse.
Un vecchio quadro settecentesco di Salvatore Lo Presti rappresenta il barone con l’orologio in mano in attesa dell’evento.
La seconda leggenda è quella del vescovo di Catania Francesco Carafa, capo della diocesi dal 1687 al 1692. La leggenda dice che questo vescovo, mediante le sue preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano dalla sua città il terremoto. Ma nel 1692 egli morì e l’anno dopo Catania fu distrutta. L’iscrizione posta sul suo sepolcro ricorda proprio tale evento ed il ruolo incisivo delle sue preghiere.



Peppa 'a Cannunera
La rivolta garibaldina a Catania - L'intervento di Peppa 'a cannunera salvò l'insurrezione contro i Borbone alla fine di maggio 1860
(Antonino Blandini)
Maggio 1860: alla notizia che i Mille avanzavano, i patrioti catanesi, dopo i falliti tentativi dell'8 e 10 aprile, decisero d'insorgere, privi di armi e munizioni, lasciando la città, presidiata da duemila militari del gen. Tommaso Clary, per organizzare la rivolta ad Adrano con i picciotti del col. Giuseppe Poulet. Giorno 24 entrarono a Mascalucia, dove l'avv. Martino Speciale eresse il tricolore, per puntare poi su Catania in stato d'assedio, mentre tanti si rifugiavano nei consolati di Francia e Gran Bretagna, dove si era insediato il comitato insurrezionale del marchese Domenico Bonaccorsi Casalotto e del principe Gioacchino Biscari, nonostante che tremila soldati stavano per abbandonare Girgenti e Caltanissetta per Catania. Allorché il 29 arrivò la notizia che Garibaldi era a Palermo, dopo una drammatica riunione fu deciso di rompere gli indugi. All'alba del 31, mentre le campane e i tricolori annunciavano l'insurrezione, una squadra di giovani al grido di "unità e libertà" si lanciò contro i regi. Un migliaio di volontari da Mascalucia raggiunse Porta Aci e Clary ordinò di bombardare la città da una nave da guerra e dal Castello Ursino. Le colonne di Poulet urtarono contro le barricate borboniche erette anche in piazza Università con i libri della Biblioteca.
A questo punto entra in scena Giuseppina, una coraggiosa popolana analfabeta originaria di Barcellona Pozzo di Gotto, della quale sono state tramandate notizie contraddittorie: nata nel 1826 o nel 1841, figlia d'ignoti o frutto di avventure amorose di un certo Antonino Mazzeo, sensale di agrumi, di cognome Bolognari, Bolognara o Bolognani con riferimento alla balia da cui fu allevata o ad un certo Giorgio che l'avrebbe adottata, o anche Calcagno per una certa Maria, nutrice di trovatelli, alla quale sarebbe stata affidata dalla Congregazione di carità, già a 12 anni serva di un oste e aiutante stalliera in un fondaco a Catania, o vetturina. Si dice che avesse il volto devastato dal vaiolo e che era legata a un suo compagno di avventure, il giovanissimo Vanni.
La giovane è passata alla leggenda col nome di Peppa 'a cannunera per gli atti eroici che le meritarono la medaglia d'argento al valor militare e una gratifica di 216 ducati. La "Bulignanina" si unì ai rivoltosi e li aiutò a trasportare un cannone, nascosto dal 6 aprile 1849 in un pozzo di casa Dottore, a issarlo su un carro e ad installarlo nell'atrio di palazzo Tornabene all'Ogninella. Aperto all'improvviso il portone, la donna, accesa la miccia, scaricò una cannonata contro i napoletani che, colti di sorpresa tra le vie della Loggetta e Mancini, ripararono dietro le barricate tra l'Università e il Municipio, lasciando su via Euplio Reina diversi caduti e un pezzo di artiglieria, di cui gli insorti non riuscivano ad impossessarsi per i continui colpi di archibugio, ma che Peppa riuscì a tirare avvalendosi di un cappio ottenuto da una robusta fune. Verso mezzogiorno, mentre la resistenza s'indeboliva per il ritardo dei rinforzi di Nicola Fabrizi, la cavalleria cercò d'aggirare gli insorti. Intervenne l'eroina alla testa di un gruppo di popolani che irruppero in piazza S. Placido da via Mazza, trascinando il cannone per piazzarlo sul parterre di palazzo Biscari alla Marina. Due squadroni di lancieri dal Duomo stavano per sferrare la carica. Gli insorti lasciarono sola Peppa che, rimasta dietro l'affusto, beffò la cavalleria, inducendola all'assalto, spruzzando sulla punta del cannone un po' di polvere cui diede fuoco, dando l'impressione che il colpo avesse fatto cilecca.
La cannoniera sparò al momento giusto decimando il nemico e mettendosi in salvo. L'epilogo della sanguinosa giornata fu negativo per i patrioti: Poulet fu ferito e, dopo 7 ore di guerriglia, ordinò la ritirata. Per 3 giorni la reazione delle soldatesche contro la popolazione fu terrificante. Dopo l'effimero successo, Clary, saputo che Garibaldi marciava su Milazzo, lasciò Catania. Le epiche gesta dell'amazzone risorgimentale furono riportate anche dai giornali stranieri. Peppa, dopo aver fatto da vivandiera alla Guardia nazionale, partecipò anche alla liberazione di Siracusa; nel 1861 o 1876 si trasferì a Messina dove, in abiti maschili, frequentò osterie e caserme, giocando a carte, bevendo e fumando. Caduta nelle mani degli usurai morì tra il 1884 e il 1900.



La Grotta delle Colombe, detta pure "Grotta delle Palombe":

La Grotta delle Colombe si trova a Santa Maria La Scala (frazione di Acireale in provincia di Catania) a poca distanza dallo scalo grande. Intorno a questa grotta di origine basaltica, corrosa nel tempo dal mare, vi sono due leggende.
Una di esse si ricollega al mito di Aci e Galatea: la grotta serviva di rifugio ai due amanti.
L'altra racconta la storia di una ninfa, Ionia, che aveva cura dei colombi che ogni inverno si rifugiavano in questa grotta. Purtroppo altre ninfe invidiose ne ostruirono l'entrata facendo morire i colombi e suscitando, così, la disperazione della ninfa che con un grido fece crollare la grotta rimanendo seppellita insieme ai suoi amici.



LA LEGGENDA DI GIARRE E RIPOSTO::

Nel VII secolo a.C. coloni calcidesi provenienti dalla vicina Naxos fondarono la città di Kallipolis (letteralmente bella città, italianizzata in Callipoli). L'esistenza di tale città è testimoniata dalle fonti, benché non siano stati rinvenuti reperti che permettano una precisa localizzazione dell'insediamento greco. Questo doveva presumibilmente collocarsi nella zona dell'odierna Giarre, in quanto si trattava del luogo più appropriato dove fondare un insediamento, per la vicinanza di un corso d'acqua (corrispondente all'odierno torrente Macchia) e del mare, e per la presenza di una vasta area boschiva (quello che verrà poi detto dai romani Lucus Jovis, poi Bosco d'Aci). Le altre possibili collocazioni della città di Kallipolis sono più improbabili, essendo all'epoca l'area a nord di Giarre prevalentemente acquitrinosa e quella a sud ricoperta da una fitta boscaglia. Dell'antica città nulla si sa oltre al fatto della sua esistenza e della sua presunta distruzione nel 403 a.C.assieme a Naxos ad opera del tiranno siracusano Dionisio I.La storia recente di Giarre va di pari passo con quella della contea diMascali, di cui la città, così come Riposto, faceva parte. Si deve infatti al vescovo di CataniaNicola Maria Caracciolo, il popolamento progressivo della Contea di Mascali, allora ancora prevalentemente ricoperta dal fitto ed esteso Bosco d'Aci. Il Caracciolo, attorno alla seconda metà del XVI secolo, offrì in enfiteusi ad acesi e messinesi le terre della contea, che vennero coltivate soprattutto a vite. Proprio grazie a questa opera di disboscamento fu possibile realizzare un nuovo tratto della Via Valeria (la direttrice romana Messina-Catania), che sino ad allora procedeva tortuosamente da Mascali verso l'entroterra aggirando a monte la zona. Fu così che nacquero le due piccole comunità di Giarre e Riposto. Il nome Giarre si deve al fondaco, un luogo di raccolta delle giare (ossia i recipienti dove erano contenute le merci: vino, olio, frutta, cereali). Progressivamente Giarre aumentò la sua importanza economica e il suo numero di abitanti e, forte del suo dinamismo commerciale, lottò aspramente per ottenere l'autonomia da Mascali con vari tentativi a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo.



L'autonomia comunale venne ottenuta nel 1815, quando vennero aboliti i feudi e la città, insieme ad altri centri, si staccò dalla allora Contea di Mascali a cui storicamente era appartenuta. Le località di Riposto e Torre Archirafi, con un'economia e un ceto mercantile alquanto diverso da quello di Giarre iniziarono subito a chiedere di costituire un nuovo comune. Il 27 aprile 1841, con concessione di ReFerdinando II di Borbone Riposto diveniva comune autonomo e veniva staccato da Giarre.
Nel 1860 la città si ribellò al governo borbonico e distrusse la torre che lo rappresentava.
Nel 1864 il re Umberto I di Savoia visitò la città, e venne ospitato in casa del deputato Alessandro Grassi, in via Callipoli 165. L'anno successivo, il 18 luglio, la frazione di Macchia venne distrutta da un terremoto che causò 64 morti e circa 80 feriti.Nel XX secolo il territorio fu ulteriormente decurtato: nel 1923 si staccò Sant'Alfio, che allora comprendeva anche Milo ; secondo voci popolari alcuni giarresi si vendicarono dando fuoco al Castagno dei Cento Cavalli. Nel 1934 la frazione di Dagala del Re venne annessa al costituendo comune di Santa Venerina
Tra il 1917 e il 1919, in seguito alla rotta di Caporetto, la città accolse un folto numero di profughi cismonesi, che vennero ospitati nella chiesa del Convento.
Nel 1918 il comune fu colpito da un forte terremoto che causò 100 vittime.

IL POZZO DI RUGGERO:
La tradizione narra che in prossimità di Giarre nella odierna frazione di Santa Maria la Strada il Gran Conte Ruggero mentre andava contro un esercito saraceno invocò l'aiuto della Madonna e fece voto, in caso di vittoria di erigere un Santuario ed un pozzo. Ottenuta lla vittoria il conte mantenne il voto ed edificò sia il Santuario che una cisterna. Da allora il pozzo è stato chiamato di Ruggero ed il Santuario è stato meta di pellegrinaggi sino ai nostri giorni. Di questa bella leggenda non vi è alcuna conferma storica ed è possibile che la tradizione sia da collegarsi alla intensa attività di riconversione al cristianesimo avvenuta nel primo periodo normanno in Sicilia (XI secolo). L'attuale chiesa è di stile settecentesco siciliano. Sul pozzo, che è di incerta datazione e si trova proprio di fronte al santuario, vi è una lapide di marmo a ricordo del gran conte normanno.




ACIREALE LA LEGGENDA DEL NOME :
Ad Acireale alla storia si affianca spesso la leggenda, soprattutto nel mito della fondazione. Tra le leggende Aci e Galatea, l'avventura di Ulisse contro il ciclope Polifemo, un bosco nato dalla vendetta di Zeus contro dei giganti ed una leggenda sulla fuga dell'esercito Cartaginese davanti ad una colata dell'Etna.
  • La leggenda, da cui poi nascerebbe anche il nome della città e dei casali fu l'idillio di amore fra Aci e Galatea (la citano Ovidio nelle Metamorfosi e poi Teocrito, Virgilio, Posidippo, Filosseno, Callimaco, Ermesianatte e Eufonione). Galatea, bellissima ninfa era innamorata di Aci semplice pastorello. Il loro amore era contrastato da Polifemo, terribile ciclope che, infuriato dalla gelosia, scagliò contro il pastorello un enorme masso, provocandone la morte. La ninfa, disperata per la perdita di Aci, supplicò gli Dei affinché restituissero la vita; questi, accogliendo le preghiere, trasformarono il pastorello in un fiume eterno, chiamato Aci. Il fiume sfocia nella frazione di Santa Maria la Scala ed ha un caratteristico effetto rossiccio, dato dalla presenza di ferro, che nella leggenda vie attribuito al sangue di Aci.
  • Nella Odissea di Omero, il viaggio di Ulisse e dei suoi compagni lungo e pieno di insidie, la grotta del ciclope Polifemo si sarebbe trovata nei pressi del promontorio di Capomulini. Il re di Itaca quando con l'astuzia accecò il ciplope si mise in fuga e venne ostacolato da Polifemo che scagliò enormi massi. I massi nella tradizione sarebbero rappresentati dagli attuali faraglioni di Acitrezza.
  • Claudiano scrisse nella Gigantomachia dei Giganti che dopo aver tentato la scalata all'Olimpo per punizione di Zeus e degli Dei caddero nel Lucus Jovis (oggi il Bosco d'Aci). Nello stesso bosco si sarebbero potute scorgere, come riportato sempre nella stessa opera, sia le pelli che le teste recise di questi sfortunati in strazianti espressioni di dolore tanto che persino Polifemo vi si teneva lontano.
  • Si narra che l'eruzione del 396 a.C., che storicamente investì e stravolse il territorio acese, avrebbe anche terrorizzato e messo in fuga la flotta cartaginese comandata da Imilcone che si preparava ad uno sbarco durante la seconda guerra punica.

la leggenda di randazzo:


In Piazza Santa Maria, s’innalza al cielo la basilica dedicata alla Madonna, straordinario modello d’architettura religiosa che affonda le proprie radici molto indietro nel tempo, tanto da confondersi con la leggenda. Si narra, infatti, che la chiesa di Santa Maria di Randazzo, oltre a nascondere incalcolabili tesori, fu eretta anticamente nel luogo dove un pastorello scoprì, all’interno di una grotta, una fiammella ardente davanti all’immagine della Madonna che nessuno aveva visto prima. Il ritrovamento suscitò tanto entusiasmo che sulla grotta si costruì prima un altare e poi una chiesetta in legno.
La Vergine divenne così la protettrice del paese che andava sempre più ingrandendosi.
Da quì ebbe inizio la storia della chiesa di Santa Maria di Randazzo, dove, ci ricorda lo storico Antonio Filoteo degli Omodei, vi dimorava il “Dio di Randazzo”, una pregevolissima opera d’arte che rappresentava la crocefissione di Gesù, ma che oggi ne rimane solo una piccola parte, mentre per il resto é andata persa nel tempo.
Si può facilmente affermare che la chiesa di Santa Maria si inserisce in quella corrente stilistica del gotico federiciano, con influenze francesi ed islamiche, tutte fusesi nella corrente normanna predominante in quell’epoca in Sicilia: un gotico sobrio e, solo apparentemente, discontinuo.
La sua struttura muraria è costituita da conci in pietra lavica, di grossa pezzatura e rigorosamente squadrati, dalle cui connessure, con grande maestria, non affiora alcuna traccia di malta.
Nella Basilica di Santa Maria, costruita tra il 1217 e il 1239, sono contenuti sette secoli di interventi, con contributi di scuole diverse, che oggi la fanno apparire un tutt’uno armonico, pur se non omogeneo nello stile, dal quale è possibile verificare il fervore delle attività artigianali, espresso sotto gli aspetti più disparati: imponente costruzione a conci ben squadrati, neri, tutti in pietra lavica, con colonne monolitiche possenti ed alte, con semplici finestre a decorazioni varie.
La pietra arenaria, che appare sulla torre campanaria a rompere la monotonia del nero della pietra lavica, con figure e rappresentazioni della nostra flora e fauna, centinaia di piccoli capitelli, diversi l’uno dall’altro, giocano con luci e con immagini che esprimono un inno innalzato alla nostra terra: tutto ciò ancora oggi ci trasmette lo squisito senso estetico dei maestri scalpellini di allora.
Il tesoro della chiesa di Santa Maria in Randazzo:
Si narra, che sotto la chiesa di Santa Maria, giace incantato un tesoro le cui immense ricchezze sono custodite da una chioccia con la sua numerosa covata di pulcini di oro massiccio tempestati di pietre preziose e brillanti. Essi giacciono in una stanza segreta anch’essa piena di ogni ricchezza.
Chi volesse impadronirsi di questi beni, dovrebbe penetrare nella stanza segreta attraverso un cunicolo scavato nella roccia lavica che dovrebbe avere la sua imboccatura sulle balze del fiume Alcantara, sotto il vecchio monastero di San Giorgio.
Narra la leggenda che l’unico momento utile a penetrare nei sotterranei della chiesa e ad uscire, è la notte di Natale, durante l’elevazione della Santa Messa di mezzanotte che si celebra nella chiesa. Infatti, solo durante quei pochi minuti che dura l’elevazione, le sette porte ferrate, guardate da mostri terribili, possono essere aperte. Chi non riuscisse ad entrare ed uscire in questi brevi momenti, rimarrebbe vittima di un incantesimo nel punto in cui si trova alla fine dell’elevazione.
La leggenda racconta che tanti spregiudicati nel passato tentarono di rubare il tesoro ma non riuscirono nell’impresa e rimasero impietriti.


e la sua festa :

Alla compatrona della città,Maria SS. Assunta, è dedicata il 15 di agosto la solennità più importante dell'anno, 'A VARA diRandazzo (Ct). Preceduta, la sera del 14, dalla processione col simulacro della Madonna dormiente, il giorno di Ferragosto alle 16 dalle absidi di S. Maria si muove il fercolo dellaVara, percorrendo l'intera via Umberto I. La sua invenzione si può collocare verso la secondametà del sec.XVI (Virzì) e può ricollegarsi alla Vara di Messina.
E' un carro allegorico-trionfale, alto quasi 20 metri, che rappresenta, su diversi piani sovrapposti (il movimento dei piani è impresso da antichi meccanismi azionati a mano e indica la rotazione dei cieli di concezione medievale, simile a quella di Messina e di Palmi in Calabria), ruotanti attorno a un asse centrale, i Misteri mariani della Morte, Assunzione e Incoronazione (così come rappresentati sulla tavola del Caniglia in S. Maria), con circa 30 personaggi viventi, ragazzi e ragazze, che sono stati sottoposti ad un rigoroso digiuno preventivo, e raffigurano la Madonna, la Trinità, gli Apostoli, Angeli e Santi. Alla base c’è il sepolcro, ricoperto di fiori, più su, tra due nuvole popolate di angeli, vi è la grande ruota in continuo movimento, con S. Michele Arcangelo da una parte, e dal lato opposto, Cristo e la Madonna. Più in alto ancora, fra altri angeli, la Trinità e l'Incoronazione, ed infine il pinnacolo sormontato dalla corona con la croce. Difficile descrivere, se non vi si è assistito, l'emozione che si prova mentre il carro avanza in tutta la sua mole, lungo il corso principale in un balenìo di specchi, trainato da grosse funi, mentre i fanciulli intonano un antichissimo inno tradizionale.

secondo la leggenda:

Secondo leggenda di matrice castiglionese scritta da Anton Giulio Filoteo degli Omodei, o dal figlio di questi, dopo i moti messinesi del Vespro (1282) il Delfino di Francia scese in Sicilia e fu ospitato dal feudatario di Castiglione Ruggero di Lauria (il feudo di Castiglione dista 5 km da Francavilla). Il Delfino s'innamorò di Angelina, figlia del feudatario, amore ricambiato dalla fanciulla. Si racconta che il Delfino dovette subito ripartire in Francia ma promise ad Angelina di tornare per poi fuggire insieme. Il ritorno del Principe sarebbe stato annunciato con dei segnali luminosi, dei fuochi, visibili dai due castelli di Francavilla e Castiglione.
Franca, ancella di Angelina, doveva aiutare la sua padrona ad aspettare il ritorno del Delfino ma amava addormentarsi, sicché la castellana era costretta a sollecitarne la veglia: "Franca, vigghia! pi mia Franca, vigghia"(cioè "Franca, veglia, fallo per me Franca, veglia) e più tardi, volendo ricordare la leggenda di Angelina, fecero costruire un castello sul colle dal quale arrivarono i segnali luminosi del Delfino e battezzarono il nucleo delle residenze con il nome di Francaveglia, italianizzato in" Francavilla". Ma la storia è di ben altra natura. Con questa leggenda si è voluto, da parte di alcuni cittadini di Castiglione, riconfermare una presunta supremazia storico-economica su Francavilla.

secondo la storia:

Il nome deriva dalla dominazione francese, e precisamente dal termine franc-ville, cioè Città Franca, perché originariamente la cittadina era esente dal pagamento di tasse. E se fu vero, come tramandano Cristoforo de' Sordi e altri storici del XVII secolo, che venne "resa franca" da Carlo Magnoin persona, il Gran Conte Ruggero non fece altro che riconfermare questo suo status. Probabilmente viene perpetuata una memoria storica. Ma questo aspetto è oggetto di indagine storica più approfondita, essendo in corso studi specifici sulla storia di Francavilla e, più in generale sulla Valle dell'Alcantara, dal Neolitico al Medioevo.

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